
Il dibattito intorno al “Caso Mori”, che vede al centro il generale Mario Mori e le accuse di tentato condizionamento della commissione antimafia e presunte fughe di notizie dalla procura di Firenze, si è ulteriormente infiammato in merito alla legittimità delle intercettazioni che avrebbero coinvolto il generale mentre conversava con il suo difensore, l’avvocato Basilio Milio. Un aspetto che tocca una delle questioni più delicate del nostro ordinamento giuridico, ovvero il difficile bilanciamento tra il diritto alla difesa e la necessità di prevenire e reprimere condotte illecite, anche quando queste coinvolgono professionisti del diritto.
L’ordinamento italiano, con l’articolo 103 del codice di procedura penale, si presenta, almeno sulla carta, in linea con gli standard europei in materia di tutela delle comunicazioni tra difensore e assistito. Il comma 5 di tale articolo è categorico nello stabilire il divieto di «intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite». Nonostante questa chiara previsione normativa, è un dato di fatto che le comunicazioni tra avvocati e clienti vengano, in taluni contesti, “ascoltate”.
Il comma 7 dell’art. 103 c.p.p. tenta di porre un argine alle violazioni, sanzionando con l’inutilizzabilità i risultati captativi raccolti in violazione di legge. In particolare, il secondo periodo del medesimo comma 7 stabilisce che, «Fermo restando il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni siano comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta».
Nonostante l’introduzione di questo secondo periodo, la norma non prevede alcuna sanzione specifica per il mancato rispetto del divieto di ascolto, registrazione e conservazione negli archivi di Procura delle conversazioni coperte da segreto. Questa assenza di sanzioni dirette per la mera intercettazione e conservazione facilita, di fatto, gli abusi, creando una zona d’ombra dove il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è diventa sempre più labile. Se da un lato è innegabile l’illegittimità dell’ascolto e della trascrizione delle conversazioni difensive, dall’altro l’attuale assetto normativo si rivela carente nel prevenire tali condotte.
La questione si complica ulteriormente quando il dibattito si sposta sulla natura delle conversazioni intercettate. La giurisprudenza ha cercato di delineare un confine, come evidenziato dalla pronuncia n. 26323/2020 della Corte di Cassazione. In quella sede, la Corte ha affermato che “non ogni colloquio tra cliente e difensore, può essere qualificato come rientrante nell’ambito del mandato difensivo, ma solo quello che, in considerazione del contenuto della conversazione, possa far ritenere che l’avvocato, in quell’occasione, abbia svolto il suo tipico ruolo di difensore, ruolo che si esplica in consigli, strategie difensive, richieste di chiarimenti”.
Cosa accadrebbe però se applicassimo tot court la normativa sanzionando l’abuso anche qualora si limitasse all’ascolto?
Da un lato, il diritto alla difesa esige che le comunicazioni tra assistito e legale siano inviolabili per garantire un’efficace tutela. Un’intercettazione indiscriminata, anche se poi inutilizzabile a fini processuali, rappresenterebbe una grave lesione di questo diritto. Dall’altro lato, la tutela di tale diritto non può e non deve tradursi in un’immunità per il legale che si accorda con il cliente – già intercettato per altra causa – per commettere un reato. La storia giudiziaria, anche in contesti di criminalità organizzata, ha purtroppo rivelato casi di coinvolgimento diretto di avvocati in condotte illecite insieme ai propri assistiti.
Le presunte intercettazioni tra il generale Mori e l’avvocato Milio riguardavano aspetti inerenti il procedimento per il quale il generale è indagato a Firenze, rientrando quindi pienamente nell’attività difensiva espletata dall’avvocato Milio, oppure toccavano argomenti esterni, potenzialmente configuranti nuove condotte illecite?
Se le conversazioni si riferivano strettamente alla strategia difensiva, ai consigli legali o a chiarimenti sulla posizione processuale di Mori, la loro intercettazione e trascrizione, illegittima e inutilizzabile, solleva interrogativi sulla prassi investigativa. Se, invece, il contenuto delle intercettazioni dovesse rivelare accordi di natura diversa da quella del diritto alla difesa tra legale e indagato, una condotta “esterna” rispetto al procedimento per cui è indagine, rispetto la quale si potrebbero palesare aspetti di reato da parte del legale in accordo con il cliente, allora si aprirebbe uno scenario ben diverso, dove la necessità di perseguire il reato dovrebbe prevalere sulla tutela del segreto professionale, pur sempre con l’obbligo di vagliare attentamente la rilevanza e l’utilizzabilità di tali acquisizioni nel rispetto delle garanzie processuali.
Per raggiungere il corretto equilibrio tra il diritto alla difesa e la prevenzione dei reati, andrebbe modificato l’attuale ordinamento prevedendo la possibilità dell’ascolto tra avvocato e cliente con precise e rigorose garanzie, sanzionando l’eventuale trascrizione delle conversazioni strettamente difensive, permettendo al contempo di intercettare le condotte illecite.
A prescindere dagli aspetti normativi, al fine da togliere ogni dubbio in merito al fatto che la Commissione antimafia potesse essere influenzata da fattori esterni, sarebbe necessario si facesse chiarezza rispetto gli argomenti tratttati nel corso delle conversazioni tra Mori e gli altri soggetti nominati dal presunto investigatore intervistato da Report.
Gian J. Morici