
Sì, se fate una gita nelle campagne siciliane, non è difficile imbattersi in allevamenti che abbiano anche le bufale, ma le bufale di cui voglio parlarvi sono di tutt’altra specie, quella che giorni fa ha fatto esultare tanti e che dopo le dichiarazioni di ieri del procuratore di Caltanissetta si guardano bene dal profferire parola o darne notizia.
La Procura di Caltanissetta ha archiviato il fascicolo sulla presunta presenza di Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, nella fase ideativa ed esecutiva della strage di Capaci del 23 maggio 1992. Il GIP Santi Bologna ha condiviso le considerazioni del pool coordinato dal procuratore Salvatore De Luca, basandosi sull’inattendibilità delle dichiarazioni dell’ex brigadiere dei carabinieri Walter Giustini e di Maria Romeo, moglie del mafioso Alberto Lo Cicero, che avevano chiamato in causa Delle Chiaie, arrivando a una conclusione netta: nessun coinvolgimento di ambienti della destra eversiva.
La notizia ha dato la stura ad articoli e commenti di questo tenore: Smentita la bufala della pista nera, Posto il sigillo sulle fesserie, ecc, decretando, mediaticamente, la fine delle indagini su coinvolgimenti esterni alla sola mafia.
Accuse di complottismi e suggestioni varie nei riguardi di tutti coloro che non hanno altri interessi se non quello di sapere cosa accadde in quegli anni che hanno segnato in maniera indelebile la vita e il futuro degli italiani, pur di ammantare di verginità quella classe politica che di responsabilità, quantomeno morali, ne avrebbe tanta quanta le belve sanguinarie di “Cosa nostra”.
Per i “fu solo mafia”, che vedono nel dossier mafia-appalti l’unico movente, ed escludono a priori ogni coinvolgimento esterno a “Cosa nostra”, assolvendo il mondo politico, tutti gli appartenenti ad apparati dello Stato (ad esclusione dei soli magistrati) e scartando con sdegno ogni altro interesse che non fosse quello mafioso, la doccia gelata è arrivata ieri con le parole del Procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca, nel corso di un’intervista esclusiva a Maria Grazia Mazzola per TV7, il settimanale del TG1.
“Una ‘filiera’ che oltre a Cosa Nostra coinvolge settori della politica, dell’imprenditoria, ovviamente tutti con finalità ampiamente criminali e illecite, senza escludere un coinvolgimento di alcuni settori della massoneria deviata” – a dichiarato il Procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca parlando per la prima volta dei “concorrenti esterni” alle stragi di mafia del 1992, ne corso dell’intervista rilasciata Maria Grazia Mazzola per TV7, aggiungendo che allo stato la Procura di Caltanissetta non ha chiuso alcuna pista.
Secondo De Luca vi sarebbe un filo rosso che collegherebbe la strage di Capaci a quella di via D’Amelio: “si tratta di alleanze che possono essere strategiche o tattiche, che non debbono essere assolutamente unitarie. Gli attori sulla scena possono essere stati molteplici ma come è scritto nella sentenza Capaci bis, la filiera che appare più probabile è quella che ho descritto”.
Giova ricordare che già in passato il gip del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello aveva respinto la richiesta di archiviazione su mandanti esterni, sollecitando una ulteriore attività istruttoria.
La verità giudiziaria è un pilastro fondamentale del nostro sistema democratico ed è l’unica che dobbiamo accettare – salvo potersi appellare -, ma considerare un’ordinanza o una sentenza un dato di certezza assoluto equivale a quella certezza dogmatica che un fedele mostra accettando un principio religioso.
Questa mia precisazione non per essere critici nei confronti dell’archiviazione in sé della cosiddetta “pista nera”, né altre ulteriori ed eventuali, quanto per chiarire alcuni aspetti, senza divinizzare o demonizzare nessuno, valutando l’esito di un pronunciamento secondo le mie personali opinioni.
Non sono un giurista, ma il sistema dei tre gradi di giudizio del nostro ordinamento mi sembrano la dimostrazione più evidente di come la verità giudiziaria non sia una verità assoluta. L’esistenza dell’Appello e della Cassazione testimonia la consapevolezza che una prima sentenza, seppur frutto di un’attenta analisi, può essere rivista, modificata o persino ribaltata, così come spesso accade con sentenze che – in fasi successive – entrano in conflitto tra loro, evidenziando come l’interpretazione delle prove e l’applicazione del diritto possano variare. Un processo di verifica e intrinseco alla ricerca della giustizia, per minimizzare i possibili errori umani.
La storia giudiziaria è costellata di casi in cui verità che parevano inappellabili sono state, anche a distanza di anni, diametralmente smentite da nuove prove, nuove indagini o semplicemente da una diversa prospettiva. L’esempio del falso pentito Vincenzo Scarantino, è emblematico. Le sue dichiarazioni, seppur poi accertate come manipolate, condussero a condanne definitive che solo in seguito furono rimesse in discussione. Questo non mina la legittimità delle sentenze passate in giudicato, ma ci ricorda che la ricerca della verità è un processo dolorosamente lento e non immutabile.
A oltre trent’anni dai fatti, la ricerca di prove solide per ricostruire responsabilità e intrecci in stragi così complesse è un’impresa ardua. Molti dei protagonisti sono ormai scomparsi, e la memoria, anche quella di chi era vicino agli eventi, può essere frammentata o distorta.
“Purtroppo dopo 33 anni, tutto diventa più difficile – ha infatti dichiarato il Procuratore di Caltanissetta nel corso dell’intervista – ma il nostro obiettivo minimo è quello di dire: abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare e poi tirare le somme in un senso o in un altro”, aggiungendo che la decisione di uccidere Falcone a Palermo e non a Roma con un attentato eclatante sia legata a una scelta precisa: “E’ evidente che si tratta di una manifestazione di forza per dimostrare potere e autorevolezza sia all’interno che all’esterno di cosa nostra legata ai vari interessi della mafia con ambienti esterni”.
Se non fossero sufficienti i tre gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento, val la pena di ricordare le diverse revisioni di processi in presenza di un quid novi, o la Cedu, che, per citare un esempio, nel caso di Bruno Contrada, ha sanzionato l’Italia per la condanna inflitta a Bruno Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa, mentre, secondo i giudici di Strasburgo, non doveva essere condannato perché all’epoca il reato non “era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”.
Non si trattò neppure di una revisione del processo, eppure tanti esultarono proclamando l’innocenza dell’ex del Sisde.
Bufale? Solo per chi le cerca tra le mandrie e le greggi facebucchiane… il resto sono atti d’indagini che a prescindere dagli esiti andavano fatte.
Gian J. Morici