Appena quattro anni fa Salvini dichiarò che i parlamentari della Lega e di tutto il centrodestra, fin quando ci sarebbe stato Morra presidente, non avrebbero più partecipato ai lavori della Commissione Antimafia.
Forse sarebbe stata l’occasione giusta per decidere di cancellare un organismo parlamentare sulla cui utilità da tempo si avanzano non pochi dubbi.
Uno dei tanti poltronifici utili ad assegnare un ruolo a qualche parlamentare e per difendere appartenenze politiche.
Sorge – ed è legittima – la domanda su come un organismo parlamentare bicamerale e d’inchiesta, possa effettuare indagini, ricerche e analisi in merito al rapporto tra mafia e politica.
Un enclave all’interno del quale viene trasferito il dibattito politico tra maggioranza e opposizione parlamentare.
A far discutere in questi giorni è la posizione dell’ex pm Roberto Scarpinato, membro della Commissione Antimafia in quota M5S, il quale si troverebbe in una situazione di incompatibilità a seguito di intercettazioni tra lui e il suo ex collega Gioacchino Natoli, indagato per favoreggiamento alla mafia.
Scarpinato, inoltre, è stato tra i magistrati che hanno trattato la cosiddetta “Trattativa Stato-mafia”, in contrapposizione all’attuale vulgata che vorrebbe l’inchiesta mafia-appalti come causa dell’accelerazione della strage di via D’Amelio.
L’ex pm – come riportato dal quotidiano Il Tempo – ha chiesto alla presidente Chiara Colosimo di potere accedere alle intercettazioni che lo riguardano.
Una richiesta alla quale la presidente della Commissione ha opposto un netto rifiuto.
Il problema di un possibile conflitto d’interessi non è un problema di poco conto, tanto che nei giorni scorsi i deputati di maggioranza hanno presentato una proposta di legge perché dalle sedute vengano esclusi quei componenti della Commissione che vengono a trovarsi in una posizione di incompatibilità.
La Commissione, infatti, deve essere super partes, dovendo indagare sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, a prescindere da appartenenze di partito che influiscano sulla valutazione di eventi gravi come le stragi del ’92, nel corso delle quali morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e gli uomini delle rispettive scorte.
Il dibattito tra chi ritiene che dietro quelle stragi vi siano pezzi dello Stato, e chi vorrebbe che siano soltanto opera di ‘Cosa nostra’, si è trasferito a Palazzo San Macuto, con evidenti posizioni politiche che ne hanno fatto uno scontro di appartenenze, ancor prima che di ricerca della verità.
Se da una parte la presidente Colosimo nei giorni scorsi ha dichiarato all’Adnkronos di avere il sacro rispetto delle istituzioni e di non avere intenzione di portare la Commissione Antimafia dalla ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio, a un dibattito sulla figura di Scarpinato, di contro ha proseguito facendo “appello che nessuno, che si chiami con nessun nome che non siano i figli di Borsellino che a questa Commissione si sono rivolti per richiedere verità, può dirmi cosa fare e cosa non fare perché la Commissione ha il dovere di andare fino in fondo qualunque cosa questo comporti e qualunque persona tocchi”.
Una caduta di stile per chi dovrebbe dimostrare l’autonomia della Commissione, quando poi dichiara che infuori che i figli del giudice Borsellino può dirle cosa fare e non fare.
Non v’è dubbio che i familiari del compianto giudice meritino il massimo rispetto, ma la presidente, nella ricerca della verità, avrebbe dovuto per prima cosa dimostrare l’assoluta autonomia e indipendenza della Commissione.
Purtroppo, il dibattito politico, dalla Commissione Antimafia, nazionale o regionale che sia, finisce sempre con il trovare sponda anche sui media, che utilizzano a proprio piacimento – o di quello altrui – tanto le escussioni di quanti auditi, quanto le analisi e conclusioni alle quali sono approdate le commissioni stesse.
È questo il caso del pentito Avola, oggi ritenuto attendibile anche dai giornalisti che hanno investito molto della propria professionalità sulla vicenda mafia-appalti, i quali nel consegnare ad Avola la patente di attendibilità sembrano non chiedersi come mai il collaboratore avesse rilasciato dichiarazioni in merito riunione di Enna nel corso della quale Totò Riina diede il via alle stragi, con l’obiettivo di destabilizzare il paese, salvo poi riportare tutto a una vicenda di sola mafia.
Un obiettivo confermato dalle dichiarazioni di Filippo Malvagna, nipote di Giuseppe Pulvirenti che a quel summit prese parte, e da Leonardo Messina, ritenuto attendibilissimo quando parla di appalti ma sulle cui dichiarazioni rese a Borsellino ai primi di luglio del 1992 a proposito del piano di destabilizzazione discusso ad Enna, sembra nessuno voglia indagare, neppure giornalisticamente.
E se patenti di credibilità vogliamo dare ad Avola, allora restituiamogli pure quella persa quando fece una dichiarazione nel corso della quale sostanzialmente affermava di aver partecipato a una riunione in cui Pacini-Battaglia e Cesare Previti avevano chiesto a Cosa nostra di eliminare Antonio Di Pietro.
Una dichiarazione smontata, frutto probabilmente della fantasia del collaboratore, quando a seguito di verifica i soggetti accusati in quei giorni si trovavano da tutt’altra parte rispetto i luoghi indicati da lui.
Non è sufficiente il Parlamento come luogo di arena politica, da dover istituire commissioni ad hoc per trasformarle in luogo di scontro tra opposizioni e maggioranza?
Gian J. Morici