C’è ormai un clima da ‘pannicelli caldi’ persino da parte di quei giornalisti che fino a poco tempo fa si lanciavano nell’arena con il pugnale in bocca pronti a supportare a volte anche tesi inverosimili con una grinta da gladiatori romani.
Ieri durante la trasmissione ‘LO STATO DELLE COSE,’ condotta da Massimo Giletti, sembrava quasi di assistere a una lezione di catechismo.
L’aspersorio gilettiano profumava di rose e incenso, evidentemente con odori così intensi da placare anche l’animo dell’iracondo Filippo Argenti se fosse stato presente.
Roba da far nominare Giletti mediatore di pace (un po’ propensa verso qualcuna delle parti in causa) nella vicenda israelopalestinese e in quella tra Russia e Ucraina.
La puntata è iniziata con l’intervento del magistrato Massimo Russo che ha descritto la scena di Borsellino piangente che dinanzi lui e la Camassa si lasciò andare dicendo che un amico lo aveva tradito.
L’avvocato Antonio Ingroia, ex pm, ricorda di quando Gaspare Mutolo, sentito da Borsellino, cambia immediatamente discorso quando entrarono altri due magistrati.
Fin dalle prime parole è chiaro Rende il clima di sfiducia che c’era nei confronti della procura di Palermo dell’epoca.
È mentre interviene la giornalista Sandra Amurri – dopo aver visto alcuni video all’epoca di Giovanni Falcone – che Giletti la interrompe per precisare che sia Falcone che Borsellino sono stati traditi più volte da parte di magistrati.
La linea di demarcazione da non superare è segnata.
È Ingroia che parla dell’atmosfera che c’era in procura quando Falcone veniva criticato dagli stessi colleghi, precisando che “perfino quando vi fu l’attentato dell’Addaura circolava la voce che aveva forse messo lui la bomba per fare carriera…non erano solo i magistrati quelli che spargevano questi veleni…ma c’erano molti magistrati che lo facevano…”
Un’affermazione che avrebbe dovuto indurre Giletti a porre la domanda chi fossero coloro i quali, oltre i colleghi di Falcone, mettevano in giro queste voci.
Una domanda forse scomoda visto che andava oltre l’alveo già designato che evidentemente prevedeva di dover parlare soltanto del ‘covo di vipere’, così come Paolo Borsellino aveva definito la procura di Palermo.
Dell’attentato dell’Addaura avevamo già scritto pubblicando l’intervista resa da Katia Sartori e Riccardo Sindoca, ma sono molto Interessanti anche gli stralci dei verbali pubblicati il 4 novembre dal settimanale Panorama sulle testimonianze rese dal col. Mario Mori, vicecomandante del Ros, in merito all’attentato dell’Addaura, qui riportati: “Sin dal primo momento – afferma Mori davanti al sostituto procuratore di Caltanissetta Ilda Boccassini – ho avuto la certezza che il collocamento dell’ordigno nel punto in cui è stato ritrovato fosse da interpretare come un atto intimidatorio nei confronti del dottor Falcone e non come un tentativo concreto di eliminarlo”.
È Mori uno dei primi a escludere che l’attentato mirasse a uccidere Giovanni Falcone.
In un altro verbale, redatto il precedente 29 aprile negli uffici romani della Dia, Mori aveva già affrontato l’argomento: “Non ritengo che Cosa Nostra abbia voluto dare un avvertimento al dottor Falcone nella speranza che lo stesso, per paura, abbandonasse le indagini sull’organizzazione. Pertanto, quando parlo di intimidazione nei confronti del magistrato, intendo riferirmi ad ambienti diversi da Cosa Nostra”.
A quali ambienti si riferiva Mori? Non di certo agli ambienti giudiziari – si spera -, quindi chi poteva avere interessi e chi poteva aver messo in atto il fallito attentato’
Era stato lo stesso Mori a indicare la presenza all’Addaura di uomini dei servizi segreti:
Il 7 febbraio, il brigadiere Tumino, l’artificiere dell’Addaura, dice di avere incontrato Mori la mattina, alle otto e trenta di quel 21 giugno dell’89. Francesco Tumino era l’artificiere dei carabinieri che disinnescò i candelotti e face esplodere il timer distruggendo l’innesco e impedendo di poter stabilire se l’ordigno era predisposto per uccidere oppure collocato a scopo dimostrativo.
Per questi fatti fu indagato ed infine condannato dal gip di Caltanissetta, a seguito di patteggiamento, a sei mesi e venti giorni di reclusione con la condizionale.
Il generale “non ricorda” l’incontro ed esclude che sia avvenuto, precisando che “appresi dell’attentato tra le dieci e le undici da una telefonata del ten.col. Garelli […] Appresi che parte del materiale sequestrato, con diversi pezzi di ordigno, fu consegnato a qualcuno della Criminalpol. Quel giorno c’era molta confusione e dopo che Tumino fece esplodere l’innesco alcune parti vennero raccolte e consegnate a lui, altre andarono a non so chi. Non escludo che alcuni reperti furono consegnati a chi indagava, cioè la polizia”, aggiungendo di non avere mai saputo – come riferito da Tumino – che un altro ufficiale dei carabinieri chiese al brigadiere di togliere dalla relazione di servizio un riferimento ad alcuni funzionari della Criminalpol che avrebbero preso in consegna alcuni reperti.
Alla domanda del pm se all’epoca ci fossero carabinieri nei servizi segreti a Palermo, Mori risponde: “so che c’erano diversi ufficiali, ed uno di essi era al Sisde ma non ricordo chi fossero. Non so, inoltre, chi di loro andò quella mattina all’Addaura”.
Un’ombra, quella dei servizi segreti, che appare e scompare come nulla fosse, sia nelle parole del generale Mori che per l’attentato all’Addaura escludeva fosse opera di ‘Cosa nostra’ attribuendola ad altri ambienti, sia, seppur velate, nella memoria del 2018 depositata dall’avvocato Fabio Trizzino, difensore dei figli del giudice Borsellino, che lascia intendere come l’opera depistatoria ‘impupando’ il falso pentito Vincenzo Scarantino, abbia visti coinvolti nello scambio di informazioni atte ad avvalorare a ‘bontà’ del falso pentito, gli investigatori della Squadra Mobile diretta da A. La Barbera e personale dei Servizi di Sicurezza Democratica di stanza a Palermo.
Del resto non si deve dimenticare che lo stesso La Barbera – oltre Contrada – era un uomo del Sisde, ruoli inscindibili per l’uno e per l’altro, che come si suol dire “se la cantavano e se la suonavano”..
Riporta la memoria depositata nel 2018:
“Qualunque tentativo di minimizzare o giustificare le condotte gravissime via via emerse anche in questo dibattimento, ha dovuto arrestarsi di fronte al contenuto di un documento proveniente proprio dal Centro Sisde di Palermo e rinvenuto tra gli atti relativi alle indagini di allora sulla strage di via D’Amelio. Il riferimento è alla nota del 13 agosto 1992 del Centro SISDE di Palermo con cui si comunicava alla Direzione SISDE di ROMA che ” In sede di contatti informali con gli inquirenti impegnati nelle indagini – ovvero gli stessi uomini che rivestivano il doppio ruolo di investigatori e appartenenti al Sisde (ndr) – inerenti alle recenti stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale polizia di Stato, avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abita la madre del giudice Paolo Borsellino……. Dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.
Queste parti civili ritengono che tale documento – confezionato secondo le modalità osmotiche descritte dal Dottor Contrada e coinvolgenti normalmente investigatori della Squadra Mobile diretta da A. La Barbera e personale dei Servizi di Sicurezza Democratica di stanza a Palermo – sia rivelatore della precisa volontà di consolidare lo sviamento delle indagini, iniziato subito con il sopralluogo del garage Orofino del 20 luglio 1992”.
A indicare in un uomo dei servizi come responsabile dell’attentato al’Addaura il 27 settembre 1994, nel corso di un udienza del processo di primo grado al numero tre del Sisde Bruno Contrada, era stato anche il tenente dei carabinieri Carmelo Canale che aveva riferito questa frase: “Caro Paolo, il dottor Bruno Contrada è responsabile del fallito attentato dell’Addaura”.
Canale testimoniò di essere stato presente quando a metà gennaio del 1992 Giovanni Falcone nel corso di un incontro avvenuto a Roma con Paolo Borsellino la pronunciò.
L’incontro era avvenuto nell’ufficio di Falcone, alla direzione generale degli Affari penali del ministero della Giustizia, e Canale – a suo dire – . venne ammesso dopo dieci minuti: “Falcone era molto agitato – testimoniò Canale – aveva gli occhi di fuori”, aggiungendo che “se fosse diventato procuratore nazionale antimafia a Contrada avrebbe messo i ferri. Io rimasi sconvolto e mentre scendevamo le scale chiesi a Borsellino chi fosse Bruno Contrada, non sapevo chi era…”.
Contrada smentì che il fatto potesse essere accaduto.
Ma di una cosa deve essere data contezza, uno dei due, ovviamente mentì.
Canale dichiarò di non aver denunciato subito il fatto “perché come uomo avevo il dovere di mantenere il segreto”, e di essersi confidato con i capitani dei carabinieri Adinolfi e Sinico solo giorni dopo la strage di via D’Amelio.
Principale attore sul banco degli imputati del programma di Giletti, l’ormai defunto procuratore di Palermo Pietro Giammanco.
Un lungo excursus di fatti noti, triti e ritriti.
Quasi a sorpresa la giornalista Amurri – mentre stigmatizza la figura di Giammanco e degli altri magistrati – afferma che Falcone voleva indagare sulla Gladio.
Ma l’attenzione è tutta puntata sul ruolo e sulla responsabilità che i magistrati dell’epoca avrebbero avuto nella vicenda. Nessuna obiezione, nessuna domanda.
Gaspare Mutolo racconta come Falcone fosse visto dai mafiosi come la pecora nera della procura che lo aveva invitato a parlare con Borsellino non potendolo sentire lui stesso a causa dell’incarico assunto all’epoca.
Mutolo non vuole parlare alla presenza di altri magistrati, né al primo incontro al quale è presente Aliquò (So a chi apparteneva, dice Mutolo) ne al secondo incontro.
In presenza di loro con Borsellino parla solo di mafia, non parla di politica, di personaggi importanti, di “personaggi corrotti dello Stato”, “questo Borsellino la fa soltando quando sono io e lui e lo scrive nell’agenda rossa, non nei verbali”.
Due giorni rima dell’uccisione di Borsellino Mutolo viene interrogato nuovamente.
Emerge un accordo secondo il quale con Borsellino avevano convenuto “che prima dobbiamo mettere in sicurezza tutti i mafiosi, e dopo si doveva parlare dei politici e delle forze dell’ordine”, ma Natoli fa una domanda su Contrada e mentre Mutolo sta rispondendo che “Contrada è l’uomo più pericoloso…”, vede che Borsellino con lo sguardo dissente, mentre l’ispettore Pippo Giordano gli dà un calcio alle gambe… Capisce quindi che non doveva rispondere.
A confermare la narrazione di Mutolo è lo stesso Pippo Giordano, che racconta come Gioacchino Natoli chiese a Mutolo se conoscesse personaggi delle istituzioni collusi con ‘Cosa nostra’, e il collaboratore iniziò a sciorinare dei nomi “e io ricordo benissimo quello di Contrada che era dei servizi segreti e Signorino che era un magistrato. Borsellino si inalberò dicendo che non erano quelle domande da fare”.
Natoli in commissione Antimafia ha smentito tutto dicendo che Mutolo, che lui sappia, quando Borsellino era vivo non aveva mai fatto i nomi di Contrada e Signorino, e che lui non ha mai posto quella domanda.
È Ingroia a precisare di non sapere se Mutolo fece mai il nome di Contrada in presenza di Natoli, ma che a Borsellino lo disse l’uno luglio, in un colloquio che avevano avuto loro due.
Imputati del programma di Giletti, soltanto alcuni magistrati e qualche “cadavere eccellente”, nessun altro.
Il colpo di scena sono due documenti inediti, una richiesta inevasa della Amurri, e il fascicolo che Borsellino avrebbe ritirato il giorno prima della sua morte dall’archivio del tribunale di Palermo, riguardante l’omicidio dell’imprenditore Luigi Ranieri, la cosiddetta prova provata – per Giletti e per quanti vogliono attribuire solo a ‘Cosa nostra’ le due stragi del ’92, che l’accelerazione della strage di via D’Amelio fu l’interesse di Borsellino per il Rapporto Mafia e Appalti di Mori e De Donno del ’91.
Spariscono dunque dall’orizzonte, quantomeno quello mediatico, i possibili mandanti esterni, lasciando sul campo i cadaveri di mafiosi e di qualche presunto colluso appartenente alle istituzioni.
Giammanco, la mattina (dello stesso giorno in cui Borsellino morì) che affidò a Borsellino le indagini che per tanto tempo aveva chiesto invano, disse: “La partita è chiusa!”, affermazione ala quale il giudice Borsellino rispose: “La partita è aperta!”
La partita è aperta.
Con il prossimo articolo il resto delle interviste, e le conclusioni alle quali quasi certamente arriverà la commissione Antimafia, la cui presidente sui social ha già manifestato compiacimento per un lungo articolo pubblicato prima ancora che il programma terminasse.
Erano così sconosciuti i due documenti dello scoop di Giletti prima che se ne parlasse nel corso del programma?
Gian J. Morici