“Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?”
Sant’Agostino
De Civitate Dei, cap. IV, 4
Non avrei mai pensato di dover citare un Santo in un mio articolo in materia di obblighi di equità e doveri di giustizia.
E non mi aiuta in questo l’educazione cattolica che ho ricevuto fin da bambino nei diversi collegi nei quali mio padre mi mandò visto il mio carattere ribelle.
Quanti oggi mi conoscono diranno che sentir parlare di santi una persona atea, o nelle migliori delle ipotesi agnostica, è una bestemmia.
Eppure, quanto affermato da Sant’Agostino non può che essere condiviso da credenti di ogni fede e persino da chi fede non ha.
Le istituzioni sono governate di un insieme di regole, funzionali a governare i cittadini, che a loro volta sono tenuti a conformarsi alle istituzioni rispettando quelle regole che sanciscono i loro diritti e i loro doveri.
Tutto ciò, in nome di una democrazia e una giustizia che ha il dovere di garantire pari libertà fondamentali per tutti.
Si tratta dunque di obblighi reciproci, doveri naturali di giustizia che si fondano sull’idea che le istituzioni hanno autorità perché sono democratiche in quanto coloro che ne sono soggetti hanno acconsentito, secondo quello che riteniamo un sistema democratico.
Sul principio di democrazia, sull’equità delle leggi e dei doveri naturali di giustizia vigenti nel nostro Paese si potrebbero scrivere tanti libri quanti ne contiene la Library of Congress di Washington che conserva oltre 158 milioni di documenti.
Ma in un paese come il nostro correremmo il rischio di intasare i tribunali per i secoli a venire, con oltre 158 milioni di querele per diffamazione a mezzo stampa – nella stragrande maggioranza dei casi temerarie – proposte da politici, imprenditori e persino da mafiosi e falsi pentiti.
Se in Italia è sufficiente la querela da parte di uno di questi soggetti, unitamente alla “prova principe” dell’indagine di Polizia Giudiziaria, ovvero, talvolta, il verbale di identificazione del “reo”, altrettanto non può dirsi quando il “reo” una volta assolto decide di adire le vie legali chiedendo venga fatta giustizia in danno di chi temerariamente (quando non del tutto in maniera falsa) ha messo in atto attività persecutorie in danno di chi aveva soltanto la “colpa” di aver voluto fare informazione.
Spesso l’azione di rivalsa si conclude con un nulla di fatto.
A differenza di quello che accade con le querele temerarie, in questi casi l’archiviazione è dietro l’angolo.
A lamentare quello che accade nel mondo della giustizia, anche l’ex sindaco di Racalmuto, autore del libro “Il Sistema Montante” e “Sbirromafia”, il quale dopo aver letto un articolo di Nicola Borzi sul triste primato europeo in materia di querele temerarie, “vinto” dall’Italia con oltre un quarto di tutte le cause infondate contro i giornalisti, scrive:
“I dati riportati nell’articolo rendono giustizia a quanto lamentato da giornalisti e scrittori d’inchiesta, oltre vignettisti e comici satirici. I dati, certo, non possono raccontare le storie di persecuzioni che subisce chi ricerca la verità. Dovremmo partire da Giovanni Spampinato che, ammazzato brutalmente nello svolgimento del suo lavoro, viene descritto come un ‘provocatore’ dagli inquirenti che spianano la strada dell’infermità mentale all’omicida, figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa. Assassino che poteva permettersi di circolare armato pur senza permessi. Manco ‘cosa nostra’ così potente. Alla fine, però, giustizia è arrivata. Giovanni Spampinato è eroe della verità. Non solo. Era un grande intellettuale, a dispetto della giovane età, dimostrato anche oggi dagli scritti che ci ha lasciato. Una perdita grave. Ma, altrettanto abbiamo perso negli ultimi decenni tra giornalisti e scrittori coraggiosi, demoliti a colpi di sentenze assurde e spogliati degli averi da condanne di risarcimenti sproporzionati. Dovremo tacere o emigrare. Devo dare ragione al saggio amico G. quando mi sconsigliò di pubblicare ‘Sbirromafia’. Lui, giornalista dal 1978 di un quotidiano importante, non si sbagliava sulle conseguenze e sui risultati. Non lo ascoltai perché ha prevalso il cuore sulla ragione. Convintamente! “
Se da una parte le querele per diffamazione a mezzo stampa sembrano avere una corsia preferenziale presso alcune procure, come nel caso di quella approdata al tavolo di un Procuratore capo nella stessa giornata in cui veniva depositata in cancelleria, e lo stesso giorno affidata alle cure di un Pubblico Ministero che, già l’indomani, provvedeva a iscrivere al registro degli indagati gli autori del crimine (talvolta si è anche più celeri con un bel decreto penale di condanna), altrettanto non può dirsi per abusi e violenze sessuali, anche in danno di minori e andati in prescrizione.
È questo il caso – oltre ad altri – di tre fratellini che avevano subito abusi sessuali nell’ambiente familiare e che sin dai primi interrogatori avevano indicato i presunti responsabili.
Una notizia di reato iscritta dal magistrato 7 anni dopo nel registro ignoti e “dopo più di 16 anni di totale inerzia investigativa e oltre ogni ragionevole termine di durata delle indagini preliminari”, come si legge nell’atto dell’accusa (in danno del PM – ndr), aveva chiesto l’archiviazione, perché intanto era intervenuta la prescrizione del reato.
Il CSM, ha condannato il magistrato alla sospensione dalle funzioni per 6 mesi, mentre la procura generale della Cassazione aveva chiesto una sanzione meno grave, la perdita di anzianità di tre mesi.
E pensare che un altro Giudice, solo per aver fatto il proprio dovere, si vide inflitta 4 anni di perdita di anzianità e 40.000 Euro di emolumenti.
Ma questa è un’altra storia di ordinaria (in)giustizia
Gian J. Morici