L’arresto del latitante ha dato la stura a un fiume di opinioni, teorie più o meno complottistiche, predizioni e profezie degne della Sibilla cumana.
Come lo hanno preso, chi sarà il successore e così via dicendo.
Nulla quaestio se gli opinionisti fossero i soliti laureati all’Università di Facebook.
Mi meraviglia, invece, quando si tratta di “addetti ai lavori”, togati, inquirenti giornalisti.
Il “Capo dei capi” è stato catturato.
Il capo di “Cosa nostra” è stato arrestato.
L’unico dato certo è l’arresto di Matteo Messina Denaro dopo trent’anni di latitanza, sul fatto che fosse il capo di “Cosa nostra” ci sarebbe molto da dire, visto che poco dopo la morte di Totò Riina, i carabinieri, il 4 dicembre 2018, arrestarono – insieme a molti suoi accoliti – Settimo Mineo, anziano boss che era stato eletto al vertice dell’organizzazione mafiosa.
E Messina Denaro? Di lui sappiamo quello che disse Riina nel corso di un’intercettazione durante il periodo di detenzione, e quello che ci raccontano le intercettazioni di fedelissimi del boss castelvetranese: Si faceva i cavoli suoi e pensava agli affari!
Del resto i palermitani difficilmente avrebbero accettato un Capo che non provenisse da un mandamento panormita.
Se di successione dunque si vuol parlare, la dobbiamo riferire alla provincia di Trapani e non alla Cupola regionale, dove, probabilmente, già da tempo siede qualche altro boss.
L’arresto di Matteo Messina Denaro, è invece importante per altre ragioni.
La prima, è quella che si è scritta la parola fine alla lunga latitanza di un boss stragista, divenuto emblema di quella “Cosa nostra” che opera nel mondo degli affari, che ha rapporti con colletti bianchi a tutti i livelli, che – e questo non dobbiamo dimenticarlo – è la belva che ebbe un ruolo nelle stragi dei primi anni ’90, quando vennero anche uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La seconda, la speranza che grazie al suo arresto si possa arrivare alle coperture che hanno permesso i trent’anni di latitanza di questo criminale.
Ed è qui che dobbiamo fare il passo indietro nel tempo, per provare a capire tutti quegli errori – sperando che tali siano – che hanno reso uccel di bosco “U Siccu” per così tanto tempo.
La sua storia è costellata da depistaggi, indagini interrotte, fughe di notizie.
A cominciare di quelle su Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, del quale il Colonnello Giuseppe De Donno parlò anche in merito alla collaborazione alla cattura di Bernardo Provenzano.
Vaccarino collaborò con il Sisde pure nel tentativo di catturare Matteo Messina Denaro, con il quale ebbe uno scambio epistolare, fin quando avutane notizia l’Autorità Giudiziaria, la vicenda dell’ex sindaco 007 – anziché essere coperta dal massimo riserbo – trovò ampio spazio sulla stampa nazionale ed estera, mandando in fumo l’operazione che forse avrebbe portato alla cattura del latitante.
Chi indagò sulla fuga di notizie?
Nessuno!
Ci sono fughe e fughe di notizie, non tutte sono uguali.
Ci sono quelle sulle quali si indaga e quelle sulle quali non si indaga.
Un altro caso emblematico, è quello che riguarda l’appuntato scelto dei carabinieri Giuseppe Barcellona, che si ritrovò al centro di una fuga di notizie – queste sì oggetto di indagini – che lo videro accusato per rivelazione di segreto d’ufficio, poiché nel corso di un’intercettazione tra due soggetti – peraltro insignificanti dal punto di vista investigativo, tanto da interrompere le intercettazioni – ne dava notizia ad un colonnello della Dia con il quale aveva lavorato in precedenza.
Peccato che la stessa attenzione sulla “fuga di notizie”, non la si sia riservata a un altro episodio che oggi sembra trovar riscontro nella cattura di Matteo Messina Denaro e nell’abbigliamento che lo stesso amava indossare.
Facciamo ancora un passo indietro nel passato.
“Il latitante indosserebbe camicie e scarpe costose, acquistate in un particolare negozio a Palermo oppure in un altro a Trapani” – riportava questo articolo di Tp24 a seguito di una relazione di servizio dei Carabinieri del Ros di Palermo, redatta in occasione della notifica del provvedimento della conclusione delle indagini preliminari all’appuntato scelto Giuseppe Barcellona per la vicenda che lo aveva visto accusato.
“Le informazioni su Messina Denaro erano state scritte a mano da Barcellona su un foglio mostrato al capitano dei Ros, che comprendeva anche la tecnica di smistamento di pizzini ad opera di un particolare postino del boss (già noto alle forze dell’ordine), che sarebbe stato solito “lasciare in sosta il proprio veicolo nei pressi del bar pasticceria di sua abituale frequentazione ed attendere che i latori dei messaggi li occultassero a bordi del predetto mezzo”.
Indicazioni che potevano essere preziose nell’ambito delle indagini volte alla cattura del latitante, ma che puntualmente, anziché rimanere riservate, venivano date in pasto al pubblico.
“L’impressione tangibile – prosegue l’articolo – è che Barcellona avrebbe voluto mettere nelle mani dei Ros la possibilità della cattura di Matteo Messina Denaro, aspettandosi probabilmente che quelle informazioni potessero rappresentare un input per un’indagine o una verifica.
Invece quei contenuti così precisi, di cui abbiamo evidentemente omesso i nomi dei negozi in questione ed il nome del presunto postino, oltre a non essere stati secretati, sono finiti agli atti, diventando conosciuti per alcuni e conoscibili per tanti altri”.
Indagini?
Nessuna!
In compenso, Barcellona, con un passato da integerrimo appartenente all’Arma, meritevole di encomi, per qualche giornalista fa il “salto di qualità” tanto da essere dipinto come uno dei protettori del latitante.
“Tra i protettori di U Siccu – riporta questo articolo del Faro di Roma – figura Marco Lazzari, agente dell’AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) arrestato nel 2015 con l’accusa di proteggere la latitanza di Messina Denaro. Il Lazzari aveva il compito di intercettare tutti i tentativi di cattura delle procure di Trapani e Palermo informando preventivamente U Siccu al fine di evitare la sua cattura. Lazzari è sospettato anche della clamorosa scomparsa, avvenuta nel 2015, di un computer portatile e due « pendrive » appartenenti al capo del Pool che indagava su Messina Denaro, che contenevano importantissime informazioni riguardanti le indagini, coperte da segreto istruttorio.
Nel 2019 la procura della Repubblica di Palermo arresta il Tenente Colonnello Marco Zappalà, ufficiale dei Carabinieri in servizio alla Direzione antimafia di Caltanissetta e Giuseppe Barcellona, appuntato dei Carabinieri in servizio alla Compagnia di Castelvetrano che avevano sostituito il Lazzari nell’opera di intercettazione delle mosse dello Stato volte alla cattura del super-latitante”.
Da dove il quotidiano abbia appreso queste notizie non è dato saperlo, visto che mai, e in nessun caso, è stata avanzata quest’ipotesi.
Si distrugge la storia, la famiglia e la vita di un uomo, con un colpo di penna che fa tanta audience.
Pazienza, è l’Italia del complotto…
Curioso invece il fatto che l’articolo faccia riferimento – a modo suo – ad un’altra clamorosa vicenda che vide una “fuga di notizie” tra magistrati.
Sì, perché è bene che lo sappiate, due magistrati che collaborano tra loro nel corso di indagini finalizzate alla cattura di un pericoloso latitante, lo fanno al fine di agevolare la mafia.
È la storia dell’allora capo della Procura di Trapani, Marcello Viola e di Teresa Principato, all’epoca pm della Dda, che vennero indagati con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio, inizialmente con l’aggravante dell’articolo 7, per aver agevolato la mafia.
Cosa avevano fatto?
Un lecito scambio di informazioni tra due magistrati trasformato in un’accusa che portò soltanto ad archiviazioni e assoluzioni.
Già, la fuga di notizie tra magistrati, roba da arresto… ed è quasi un miracolo che non li abbiano arrestati…
Ma la vicenda è molto più complessa di quanto non possa sembrare, visto che Calogero Pulici, ex finanziere e fidato collaboratore della Principato, tra le altre cose venne accusato di aver consegnato nell’ottobre 2015, all’allora capo della Procura di Trapani, Marcello Viola, una pendrive contenente i verbali di interrogatorio di un collaboratore di giustizia coperti da segreto investigativo.
Processi e relative assoluzioni a parte, un fatto gravissimo sembrava fosse accaduto all’interno di quella procura palermitana, tanto celere nell’avviare talune indagini, quanto lenta, se non del tutto assente, nell’avviarne delle altre.
Pulici era stato allontanato verbalmente dalla Procura di Palermo nell’estate 2015, a seguito di una querela per molestie (finita archiviata) rimanendo coinvolto in più processi terminati con assoluzione.
L’11 dicembre 2015, l’allora finanziere, recatosi nella stanza della dottoressa Principato per ritirare i suoi effetti personali, in presenza di testimoni faceva la scoperta che era “scomparso” il suo pc e due pendrive che contenevano tutti i file delle attività di indagini (molte delle quali in merito alla latitanza di Matteo Messina Denaro) svolte dall’ufficio e coperte da segreto istruttorio. Pulici, lo stesso giorno, informava il suo comando provinciale, nella persona del suo comandante, di ciò che era successo.
Un fatto avvenuto in quella che avrebbe dovuto essere una delle stanze più blindate della Procura di Palermo, risolto con un’archiviazione a mod 45 (non essendo emersa alcuna ipotesi di reato).
Così è (se vi pare), avrebbe detto Luigi Pirandello.
In questa “normalità”, nonostante tanto normale non mi pare, si inserisce perfettamente un’altra clamorosa fuga di notizie, anche se in questo caso non riguardava il boss di Castelvetrano – ma comunque uno dei suoi cacciatori-, che vale la pena di ricordare per provare a capire come funziona, o come non funziona, la macchina della giustizia.
È quella che riguarda Marcello Viola nella corsa a procuratore di Roma.
È l’8 maggio 2019, quando il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, va in pensione. Si apre la corsa alla sua successione. Sono inizialmente tredici i candidati in gara, tra i quali Marcello Viola, Francesco Lo Voi e Giuseppe Creazzo. Il 23 maggio, Marcello Viola ottiene quattro voti favorevoli dalla V Commissione del Csm, contro un voto favorevole per ciascuno degli altri due candidati. È lui il nuovo procuratore in pectore.
Trascorrono appena sei giorni, quando a seguito di una fuga di notizie la stampa riporta di intercettazioni a carico del pm Luca Palamara, svelando trame occulte per la nomina del successore di Pignatone. Alla stampa viene dato anche il nome di Viola nonostante a suo carico non emerga nulla di rilevante. Scoppia il terremoto, lo scandalo travolge il Csm, la candidatura di Viola – oggi procuratore di Milano – verrà bruciata.
Che Viola fosse stato vittima delle eventuali manovre per la nomina alla successione di Pignatone lo dice lo stesso Csm che lo definisce “parte offesa rispetto alle macchinazioni o aspirazioni di altri”, ma poco importa, la fuga di notizie fu perfettamente funzionale al risultato.
Indagini?
Anche in questo caso nessuna!
Ci sono fughe e fughe di notizie, sia che riguardino i latitanti che il mondo della magistratura, su alcune si indaga, su altre no…
Peccato che le predizioni e le profezie degne della Sibilla cumana si riferiscano solo alla successione a capo di “Cosa nostra” (anche se Matteo Messina Denaro non lo era), e non alle coperture che ebbe il latitante castelvetranese e alle tante ombre che si proiettano sulle modalità con cui vennero – o non vennero – condotte talune indagini, alle fughe di notizie (quelle vere) e ai tanti segreti custoditi in quello che il giudice Paolo Borsellino definì “un nido di vipere”…
Gian J. Morici