di Simona Mazza
Raimondo di Sangro, meglio noto come il Principe di Sansevero (1710) divenne famoso per le sue pratiche alchemiche. Fu lui a commissionare il capolavoro barocco noto come “Cristo velato”
Lo “stregone” che commissionò il Cristo velato
Al solo sentire pronunciare il suo nome, gli abitanti di Napoli tremano ancora. Lo “stregone”, intento in misteriose pratiche alchemiche nella Cappella di Santa Maria della Pietà dei Sangro o Pietatella, era infatti una figura piuttosto inquietante.
Oltre a essere considerato uno stregone, Raimondo di Sangro, illustre alchimista e primo Gran Maestro della loggia massonica napoletana, introdusse nella cappella una serie di simboli esoterici.
Fu lui a commissionare il capolavoro d’arte barocca noto come “Cristo velato”. Simbolo dell’arte ermetica per eccellenza, sulla meravigliosa scultura il Principe di Sansevero cercò di riversare i risultati della sua scienza occulta. Cosa che ancora oggi suscita la curiosità di studiosi, scettici e pellegrini.
Chi era il Principe?
La grande passione per l’alchimia
Il Principe fu soprattutto un chimico e un alchimista.
Nonostante gli studi presso la Confraternita dei gesuiti, già nel 1750 il giovane nobile napoletano entrò a far parte della Confraternita segreta dei Rosacroce, dove venne iniziato agli antichi riti alchemici. Poiché era un personaggio assai stimato, i suoi confratelli lo nominarono immediatamente Gran Maestro di tutto il Regno delle due Sicilie.
Da quel momento i napoletani iniziarono a chiamarlo “stregone”. Come chimico ed alchimista fu in grado di produrre reagenti che indurivano sostanze molli o che rendevano plastici il ferro ed altri metalli “a freddo”; inventò sbiancanti per per colorare il marmo e studiò anche il processo inverso, riuscendo a decolorare i lapislazzuli. Si dice che addirittura scoprì la radioattività naturale con 150 anni d’anticipo rispetto ai coniugi Curie.
A svelarlo una lettera, sottoposta a regolare perizia calligrafica e ritenuta autentica, datata 14 novembre 1763. La missiva era indirizzata al barone H. Theodor Tschudy (cadetto del reggimento di Svizzeri al servizio del Re di Napoli ed esponente della Massoneria), suo amico fraterno.
In un passo, il Principe parla infatti di un “raggio-attivo” proveniente da un minerale, la “pechbenda” che aveva un effetto mortale sui viventi, come provato dalla sperimentazione sulle farfalle e si poteva “schermare” unicamente con il piombo”.
Il legame con la massoneria
Preoccupato dal diffondersi della massoneria nel Regno delle due Sicilie, Papa Benedetto XIV il 15 gennaio 1751 comunicò all’ambasciatore di Carlo III di voler prendere provvedimenti ed istituire a Napoli un tribunale del Santo Uffizio.
Per una strana coincidenza, lo stesso anno non si compì il miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro e il popolo, aizzato da un certo frate Guglielmo Pepe, diede vita ad un movimento contro i massoni, considerati i responsabili del mancato prodigio. Per tali motivi, il 28 maggio 1751 Benedetto XIV emanò la bolla Providas Romanorum Pontificum, che confermava la scomunica alla massoneria già espressa tredici anni prima dal suo predecessore, Clemente XII.
Tra le vittime del provvedimento ci fu anche il Principe di San Severo, il quale, giocando in anticipo, il 26 dicembre 1750 si presentò al re e gli consegnò la lista dei nomi degli affiliati alla sua loggia massonica, insieme con tutti i documenti relativi alle logge presenti nel Regno.
Ad agosto dello stesso anno, tradendo il segreto massonico, il Principe scrisse al Papa abiurando la sua fede massonica e mettendosi sotto la sua protezione. In questo modo si salvò la vita ed il sovrano si limitò ad impartire una “solenne ammonizione” a tutti i massoni napoletani.
Ovviamente fu radiato dalla Massoneria e così dedicò il resto della sua vita agli studi alchemici e alla realizzazione della sua Cappella privata. Secondo la leggenda, nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte Cagliostro, membro della confraternita dei Rosacroce, affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate a Napoli da “un principe molto amante della chimica”. Facile intuire di chi si trattasse.
Le stravaganti attività del principe contribuirono non poco ad alimentare una serie di leggende. Si diceva ad esempio che:
Una morte leggendaria
Morì il 22 marzo 1771 dopo aver ingerito delle sostanze tossiche. Almeno secondo le voci “ufficiali”.
Secondo la leggenda invece, durante i suoi esperimenti alchemici, avrebbe scoperto un elisir capace di ridare vita ai cadaveri.
Poiché lo voleva sperimentare personalmente, ordinò ad un servo fidato di tagliare il suo corpo a pezzi e di collocarli in un baule, al cui interno si sarebbe dovuto svolgere il procedimento di rinascita, con metalli nobili dosati con sapienza.
Il baule tuttavia suscitò l’attenzione dei parenti, i quali ritenendo vi fossero metalli preziosi, aprirono il baule prima che si completasse l’opera di ricomposizione.
In quel momento, tra l’orrore dei presenti, il corpo del principe venne fuori con gli organi ancora appena parzialmente collegati tra loro, poiché l’elisir non aveva completato l’opera di ricostruzione.
Dopo aver cacciato un urlo sovraumano, la larva di corpo si disfece e i vari pezzi ricaddero nel baule.
Il Cristo velato e il legame con l’alchimia
Ma veniamo al capolavoro d’arte barocca
Come detto, una delle prove del legame del Principe con l’alchimia è la statua marmorea del Cristo velato, opera del geniale scultore Giuseppe Sammartino, datata 1753.
Giuseppe Sanmartino aveva appreso i rudimenti dell’arte presso la bottega di un modellatore di pastorelli da presepe, Felice Bottiglieri. Egli stesso creò statuine altamente espressive destinate a quel singolare genere presepiale che nel ‘700 andava molto di moda.
Qui entra in gioco il Principe. Il nobile aveva richiesto espressamente una “statua scolpita in marmo di Nostro Signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una sindone di velo trasparente dello stesso marmo”, della quale l’artista massone Antonio Corradini aveva già realizzato un bozzetto in terracotta.
Conservato al Museo di San Martino, il bozzetto può considerarsi un “testamento spirituale”, una prova dell’indissolubile connubio tra l’Arte e gli ideali massonici celebrati dalla Cappella gentilizia.
La cappella del Cristo velato
Il Cristo velato si può ammirare nei pressi del palazzo Sangro, al numero 19 di via Francesco de Sanctis.
Qui sorge la famosa cappella Sansevero, chiamata anche Santa Maria della Pietà dei Sangro o Pietatella.
La cappella rappresenta una sintesi straordinaria di sapere ermetico, una “dimora filosofale” nel cuore di una città esoterica quale Napoli, carica di simbologie e di mistero.
Dietro alla “rassicurante” simbologia cristiana, questo capolavoro architettonico nasconde in realtà una miriade di riferimenti e di simbolismi legati all’enigmatico linguaggio massonico.
Simboli esoterici e massonici della Cappella
Quando si entra all’interno della cappella è come se si facesse percorso iniziatico alla ricerca della vera conoscenza.
Il mistero del velo del Cristo
La vera perla “simbolica” della Cappella è il capolavoro d’arte barocca, il Cristo velato.
L’opera,da oltre 250 anni suscita l’attenzione di studiosi e viaggiatori ,increduli dinanzi alla misteriosa trasparenza del sudario che non richiama minimamente alla freddezza e durezza del marmo, ma che ricorda semmai la fluidità della seta.
Essa rappresenta appunto Cristo morto, sdraiato su un materasso con due cuscini, quasi fosse addormentato e raffigura i simboli della Passione (martello, chiodi, tenaglia).
Il modo in cui questo velo è stato realizzato rimane un mistero.
A sfatare ogni mito fu il gesto di un militare tedesco, che spaccò con il calcio del suo fucile una parte della statua.
Anche Giangiuseppe Origlia, il principale biografo settecentesco del di Sangro, confermò che il Cristo era “tutto ricoverto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo”.
Un contratto conferma l’uso del marmo
L’uso del marmo ebbe conferma anche dalla scoperta di svariati documenti (alcuni dei quali conservati presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli), che riportavano un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino, firmato da Raimondo di Sangro.
Nel contratto tra il Principe e Sammartino, l’artista si impegnava a creare una “statua raffigurante Nostro Signore Morto al Naturale da porre situata nella cappella Gentilizia del Principe, cioè un Cristo Velato steso sopra un materasso che sta sopra un panneggio e appoggia la testa su due cuscini, apprè del medesimo vi stanno scolpiti una Corona di spine tre chiodi e una tenaglia”.
Si leggeva altresì che il Principe avrebbe procurato il marmo e realizzato una “Sindone, una tela tessuta la quale dovrà essere depositata sovra la scultura, dopo che il Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minutioso di marmo composito in grana finissima sovrapposta al telo. Il quale strato di marmo dell’idea del sig. Principe, farà apparire per la sua finezza il sembiante di Nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua”.
Il Sammartino invece si impegnava a ripulire la Sindone per renderla un tutt’uno con la statua stessa e a non svelare a nessuno la “maniera escogitata dal Principe per la Sindone ricoorente la statua”.
Analisi stilistica del Cristo velato
La prima caratteristica che salta all’occhio è la tensione dinamica che percorre il busto del Cristo. Cosa che lo fa apparire tutt’altro che disanimato pur nell’estremo abbandono della morte.
Il dinamismo della figura si deve all’escamotage dei cuscini, che al pari dei panneggi, non hanno affatto un’accessoria funzione decorativa.
A sorprenderci però è lo straordinario drappeggio delle stoffe.
Esse sembrano animate da un vento, da un fuoco di misteriosa provenienza. Sono delle “superfici sensibili”, che ci danno una percezione tattile ed emozionale senza precedenti. Ci fanno immaginare spazi propulsivi, di “inversioni dinamiche”, modellate fin nelle intime pieghe delle superfici plastiche.
Il velo è così sottile che sembra dissolversi in un’avvolgente e straziante carezza. Si fa tutt’uno con la carne. E’ una nuova epidermide che sembra fremere e pulsare sotto la cute fino allo spasimo.
Questo espediente serve a distogliere l’attenzione dalla svilente condizione della morte.
Offusca tuttavia solo lo sguardo profano con l’inaccessibile luce donata al marmo dall’artista.
Ed è questo il vero inestricabile ossimoro visivo agli occhi del non iniziato. Il velo ardente di alchemico fuoco trasmutatorio, di Ignis amoris per dirla alla Giuliano Kremmerz, nasconde altro?
La lettura esoterica
Ma allora quale lettura in chiave esoterica si nasconde dietro alla scultura barocca?
Addentrandoci nel simbolismo, si scopre che dietro la figura di Gesù, si nascondono dei significati iniziatici riferibili a gerarchie settarie.
1) Osservando la scultura in una prospettiva esegetica, si potrà notare che dietro l’”ovvio” letto di morte scolpito nel marmo, si nasconde una metafora ben precisa: l’allegoria stessa del “letto di Dio”.
L’alcova diventa il luogo deputato al rapimento estatico, al matrimonio mistico dove appunto si consuma la coniunctio per antonomasia: l’amplesso tra l’anima e Dio;
2) Il velo steso sul corpo di Gesù, è uno stimolo ad elevare l’IO, sollevando poco a poco il velo che ci separa dall’Essere, che è la nostra Anima . Cosa che consente di realizzare appunto il matrimonio mistico.
Gesù infatti, disse: “Allorché di due farete uno, allorché farete la parte interna come l’esterna, la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore, allorché del maschio e della femmina farete un unico essere sicché non vi sia più né maschio né femmina, allorché farete occhi nel luogo di un occhio, una mano nel luogo di una mano, un piede nel luogo di un piede e un’immagine nel luogo di un’immagine, allora entrerete nel Regno”.