Chissà per quanto tempo ancora ne sentiremo parlare di quella che doveva essere la madre di tutte le inchieste.
Quella Trattativa Stato-mafia, che se dovesse diventare definitiva la sentenza della Corte d’Assise di appello di Palermo (della quale non sono ancora state depositate le motivazioni), rappresenterà il fallimento di un’attività giudiziaria avviata oltre dieci anni fa da Antonio Ingroia e dai magistrati palermitani, coinvolgendo ampi pezzi del giornalismo italiano, associazioni antimafia e famigliari di vittime di mafia in un carosello mediatico senza precedenti.
È la giustizia da talk show, quella dei teoremi, dei complotti, delle ipotesi non suffragate da prove certe e da riscontri.
Se i processi si facessero in tv e sulle pagine dei giornali, non v’è dubbio che gli apparati messi in campo dai “colpevolisti” avrebbero loro consegnato la vittoria.
Ma in un Paese che fu la culla del diritto, c’è ancora chi crede che i processi vadano fatti nelle aule dei tribunali e che le sentenze vadano pronunciate secondo le leggi vigenti e non secondo l’indice di gradimento di un’iniziativa giudiziaria.
Purtroppo, in passato, anche qualche magistrato riteneva di dover guardare al comune sentire del cittadino, come nel caso di Di Matteo, secondo il quale Spatuzza non doveva usufruire del piano provvisorio di protezione perchè ciò poteva portare l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità degli stessi, accertate con sentenze irrevocabili, potessero essere state affidate a falsi pentiti protetti dallo Stato, così come in realtà è accaduto.
Un’attività giudiziaria molto “Travagliata” (Travaglio, se avesse potuto, anziché fare il pm mediatico si sarebbe sostituito anche all’intera corte) che ha visto scendere in campo la “voce ufficiosa della Procura”, come veniva definita Antimafia2000 di Giorgio Bongiovanni, il guru con le stimmate in contatto con la Madonna e un po’ di marziani, alla quale viene affidata la difesa ad oltranza della Trattativa.
Talvolta anche pubblicando dichiarazioni che, se di altri soggetti, susciterebbero le ire di tutta la magistratura italiana.
È questo il caso di Salvatore Borsellino, il quale – a differenza di altri familiari del giudice ucciso in via D’Amelio – addossa alla presunta Trattativa la morte del fratello.
“Più che un colpo di spugna – riporta Antimafia2000 citando una dichiarazione di Salvatore Borsellino rilasciata all’AGI a seguito della sentenza – è la degna conclusione della trattativa. Si rispettano i patti, tutto viene occultato ma questa è anche la fine di tutto”.
Si rispettano i patti?
Si può anche essere critici rispetto una sentenza, ma qui si supera ogni limite e resta solo da sperare che a nessun Travaglio di turno venga in mente di pompare mediaticamente una nuova “trattativa” anche riguardo questa sentenza.
Alle esternazioni del fratello del giudice siamo abituati, così come alla facilità con la quale ha promosso incontri di legalità, libri, convegni e abbracci (un abbraccio non si nega a nessuno) con soggetti assai poco credibili, dallo pseudo pentito (da tempo sconfessato) Vincenzo Calcara, a Massimo Ciancimino, il “pezzo forte” del processo sulla presunta Trattativa.
Peccato che si siano persi dieci anni di tempo a inseguire teoremi e fantasmi, anziché mettere a nudo la matrice delle stragi.
Cos’è una “trattativa”, se non la fase preliminare a un accordo?
E quale fu l’accordo?
Premesso che il reato di “trattativa” esiste soltanto nella mente di un’opinione pubblica alla quale è stato inculcato l’inesistente (il reato era quello di un eventuale minaccia a corpo politico dello Stato), l’ipotesi accusatoria era stata decostruita già anni fa, quando venne provata l’inesistenza del versante politico alla succitata Trattativa che avrebbe dovuto produrre un armistizio con la mafia, in cambio della cessazione della strategia stragista.
Da quel momento in poi, ogni ipotesi, ogni analisi deduttiva, avrebbe dovuto lasciare il posto ai riscontri, alle prove, ovvero a tutto quello che non c’era.
Si è preferito lasciarsi condurre per mano da quegli stessi pentiti che nonostante giorno dopo giorno vedessero messa in discussione la propria credibilità (Ciancimino docet!) compiacevano la regia del processo alla Trattativa.
Che gli ufficiali dei Ros avessero avuto contatti con Vito Ciancimino, era noto da tempo.
Lo sapeva Paolo Borsellino, che con i Ros avrebbe voluto portassero avanti l’indagine mafia-appalti; lo sapevano Caselli e Ingroia già dal 1993, quando fu proprio Caselli ad autorizzare i Ros a proseguire i colloqui con Vito Ciancimino.
Fanno sorridere le parole pronunciate subito dopo l’assoluzione degli ex ufficiali del Ros, dal “costruttore” della “madre di tutte le inchieste” (che nel ’93 non ebbe nulla da ridire quando Caselli autorizzò i carabinieri a portare avanti i contatti con Ciancimino) secondo il quale “che di questa trattativa debbano rispondere solo gli uomini della mafia, usati come capro espiatorio, e nessun uomo dello Stato mi pare un risultato sostanzialmente ingiusto. Certamente lo Stato non esce assolto da questa sentenza, escono assolti solo quegli uomini dello Stato che erano stati imputati”.
È quasi una fortuna che Ingroia oggi faccia l’avvocato, altrimenti avremmo corso il rischio di ritrovarci sulla panca degli imputati l’ologramma dell’Italia Turrita anziché persone in carne e ossa…
Dopo il fallimento delle accuse all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino (assolto) e a Calogero Mannino (assolto nei tre gradi di giudizio), che secondo Di Matteo era stato origine della Trattativa, la “madre di tutte le inchieste” aveva già perso i suoi pilastri principali, lasciando in piedi soltanto quei colloqui tra i Ros e Vito Ciancimino, dei quali da tempo si sapeva e che perfino Caselli nel ’93 aveva autorizzato.
Colloqui portati avanti per motivi investigativi, che avevano come obiettivo a cattura dei vertici della mafia siciliana.
E il “papello” con le richieste di Riina allo Stato per fermare le stragi?
Il famoso “papello”, consegnato da Massimo Ciancimino, è la fotocopia di un presunto documento scritto da Riina (ma da questi escluso) il cui originale si troverebbe all’estero, del quale Ciancimino non ha mai voluto dichiarare chi glielo diede e di non essere a conoscenza di chi ne fosse l’autore.
Secondo l’accusa, la prova che la Trattativa fosse avvenuta, sarebbe il fatto che nel novembre del 1993 non vi fu la proroga automatica del regime di carcere duro (41 bis) a circa 300 detenuti, così come richiesto nel “papello”.
Secondo la testimonianza dell’allora direttore del Dap, la mancata proroga in automatico, sarebbe avvenuta in virtù di una sentenza della Corte Costituzionale che prevedeva la valutazione caso per caso e non il rinnovo in automatico per tutti i detenuti che erano soggetti, fatto questo che impose all’allora ministro della Giustizia di attenersi alle indicazioni date.
Orbene, se la prova principe, la cosiddetta prova provata, era il mancato rinnovo in automatico del regime di 41 bis, i casi sono due:
- L’accusa ai Ros era ingiusta, priva di fondamento e facilmente smontabile;
- I mafiosi, si erano rivolti a chi – anziché agevolarli – li aveva presi per i fondelli e li inchiodava sostenendo la necessità di proseguire con la misura del carcere duro.
Infatti, come si evince da un documento del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, dell’agosto del ’93, sono proprio i Ros – ben tre mesi prima che non venisse rinnovato il carcere duro ad alcuni detenuti – a proporre che dovesse darsi sempre applicazione al 41-bis, al fine di recidere il legame tra i detenuti e l’organizzazione criminale, e portarli, con il carcere duro, a collaborare.
Se esistesse il reato di “presa per il culo”, e si dimostrasse l’avvenuta Trattativa nei termini di cui sopra, non v’è dubbio che gli ufficiali dei Ros andavano condannati e i mafiosi avrebbero avuto tutto il sacrosanto diritto di citarli in giudizio.
Peccato che nessun mafioso lo abbia mai fatto, e che a volerli processare sia stata questa nostra giustizia…
A parlare del famoso “papello”, era stato anche il collaboratore Giovanni Brusca, che nel ’96 disse di un “papello” che non aveva visto, ma rispetto al quale Riina gli avrebbe detto: “Si sono fatti sotto, vogliono sapere cosa vogliamo per fermare le stragi. E io gli ho consegnato un ‘papello’ di richieste grande così”
Di un “papello grande così”, l’unica cosa che conosciamo è la fotocopia di un foglietto di carta (scritto da chissà chi e chissà quando) piccolo così…
E su questo abbiamo imbastito decenni di indagini e un processo infinito?
In attesa che Ingroia ci aiuti a portare sul banco degli imputati l’Italia Turrita; che Scarpinato continui a recuperare la memoria, così come ha fatto quest’anno nel corso della sua audizione in commissione antimafia, aggiungendo dettagli in merito al dossier mafia-appalti e al suo incontro con il giudice Borsellino; che altri comprendano che il magistrato non guarda a cosa può pensare l’opinione pubblica, bensì a cosa dice la legge e quali prove ci siano di un fatto che costituisce reato; in attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza di assoluzione dei Ros, che chiariranno ulteriormente cosa accadde; ci chiediamo: Quando si affronterà il tema mafia-appalti, che se non la causa principale della strage di via D’Amelio ne è stata certamente una delle concause più importanti?
Gian J. Morici