Sfidando, stoicamente, l’editto ministeriale che “sconsiglia” ogni comunicazione (che non sia quella relativa alla bontà del cibo e alla meteorologia) mi ripropongo ai Vostri intelletti.
L’occasione è ghiotta e la ghiottoneria sembra essere una delle pulsioni gastro-giudiziarie ammesse dal protocollo di buona creanza magistratuale.
Il menù del quale vorrei parlarvi ha antiche tradizioni siciliane anzi, più specificatamente, origina nell’arcipelago delle isole battezzate con il nome del Dio dei venti.
Sembra che in quei luoghi primordiali e geologicamente straordinari, l’uomo abbia – da sempre – dovuto adeguarsi alle necessità.
Quando il mare in tempesta non consentiva ai pescatori alcuna possibilità di cibo, si dice che le donne attrezzassero un prelibato desco a base di nulla.
Dentro una casseruola facevano soffriggere aglio e cipolla.
Quel soffritto veniva, quindi, allungato con l’acqua (si dice servisse anche un poco dell’acqua del mare) e tutte le verdure che residuavano vi erano aggiunte.
Ma ciò in cui le donne eoliane eccellevano era la scelta delle pietre. Sì, avete ben letto: LE PIETRE.
Le più saporose – perché dense di licheni, muschi e alghe marine – venivano unite nella ribollitura e, dopo qualche tempo di cottura a fuoco basso, ecco pronta e servita in tavola la famosa “zuppa di pesce con il niente”, da tutti conosciuta con il nome di “Zuppa con l’Imbroglio”.
Nessuno straniero ha mai pensato, gustando quell’intingolo, che il pesce non vi avesse mai fatto capolino…
Vi chiederete, a questo punto, perché via abbia parlato della fantasmagorica zuppa eoliana in forma metaforica.A quella specialità gastronomica ho pensato allorché ho letto l’ultimo documento edito dalla Camera dei Deputati (XVIII Legislatura) sullo stato di previsione del Ministero della Giustizia.
Testualmente vi sta scritto che “la percentuale delle spese in rapporto alle spese finali dello Stato è stato ridotto rispetto all’1,3 percentuale dell’ultimo esercizio” .
Alla faccia dei proclami sul buon andamento e sulla funzionalità.
Gli inglesi avrebbero detto: “What You see is what You get and what You get is what You see…
”La zuppa, però, deve essere comunque servita al tavolo e non mancheranno i convitati (di pietra?) che apprezzeranno la bontà del pesce sapientemente cucinatovi.
Sarebbe carino rispondere a questa giustizia delle finzioni e dei risparmi, con una eguale giustizia dei dadi (ma non quelli del brodo…).
Nel millecinquecento François Rabelais tirò fuori dal cappello della sua fantasia il giudice Bridoye.
Sottoposto a procedimento disciplinare per avere deciso una causa con l’uso dei dadi il giudice ammetteva, con disarmante genuinità, di avere definito con lo stesso metodo tutte le cause affidategli nel corso della sua lunga e onorata carriera.
Citando Giulio Cesare e il famosissimo detto che segna il passaggio del Rubicone, spiegava di avere fatto ricorso ai dadi in ossequio alla traduzione letterale di “alea judiciorum”.
Bridoye sistemava sul bordo destro del tavolo il sacco con le carte che avrebbero dovuto dimostrare le ragioni della difesa e, sul bordo sinistro, il sacco con le carte dell’accusa, così da riprodurre plasticamente il dibattito fra le parti. E poi – alea iacta est! – tirava a sorte.
Usava dadi grandi quando la causa era semplice e dadi piccoli quando la vertenza era particolarmente difficile da risolvere.
“Esattamente come fate voi…” chiariva, con tono beffardo, ai suoi pari della Corte di Myrelingues.
Nel tentativo di superare l’empasse, il presidente Trinquamelle a un certo punto chiedeva:
“Da cosa desumete se una causa è semplice o complessa?
Naturalmente – rispondeva Bridoye – dal numero e dalle dimensioni dei sacchi.
Ma allora perché, insisteva il presidente della Corte, non gettavate i dadi all’inizio della procedura?
L’anziano giudice rispondeva, indignato:
“Per rispetto della forma… perché “forma mutata mutatur substantia” e anche perché lo spostamento dei sacchi era un buon esercizio fisico.
E perché il tempo fa maturare tutte le cose essendo padre di ogni Verità…”
Già… il tempo misura di tutte le cose giudiziarie (e non…).
Adesso, ognuno di Voi si faccia la sua idea.
Ve ne suggerisco una assai stravagante:
“E se il giudice Bridoye avesse usato i dadi del brodo in luogo di quelli che si usano a Las Vegas?”
Forse ancora più aleatoria sarebbe stata la “sua giustizia”, ma – nella totale povertà degli strumenti – almeno un po’ più sapida…
Lorenzo Matassa