Un contributo sulla ‘pornografia dello sguardo’
Parto da un doloroso fatto di cronaca — ieri, due giovani donne sono rimaste uccise in un incidente automobilistico a Palermo, che ha coinvolto diversi automezzi e causato una ventina di feriti, tra cui una bambina — per una riflessione sul ruolo dell’immagine e della rappresentazione del dolore. Mentre i Vigili del Fuoco lottavano per estrarre il cadavere di una ventenne dalla carcassa di un’auto, mentre i soccorritori si prodigavano con ogni sforzo, ma inutilmente, nel rianimare l’altra, intubandola sull’asfalto e praticando un massaggio cardiaco durato tre quarti d’ora, mentre gli agenti di polizia radunavano i frammenti delle auto, che l’incidente aveva disperso in un raggio di cinquanta metri, l’immancabile folla di astanti si fermava a fotografare e a registrare filmati con i telefonini.
Molte volte, chi come me si occupa professionalmente di psicologia dell’immagine, si è chiesto quali ragioni profonde spingano tante persone, in un frangente così tragico, ad impugnare fotocamere e telefonini. E ancor di più ci si interroga sulle ragioni profonde che spingono diecine di giornalisti a pubblicare queste immagini e migliaia di persone a tornare a guardarle, compulsivamente.
Non è sufficiente liquidare questi comportamenti diffusi di fronte allo “spettacolo del dolore” con la locuzione, che puntualmente ricorre in questi casi, di “morbosa attrazione”. Che cosa c’è di attraente?
Non è Facebook il luogo per una puntuale disamina scientifica — ho scritto diversi libri su questi argomenti — ma vorrei riproporre qui un parallelo tra la folla di astanti che fotografano un incidente, o che di quelli che si radunano ad osservare, come nella fotografia di Mario De Biasi scattata a Budapest durante la rivoluzione del 1956, la brutalizzazione del cadavere di una ex-spia, vorrei dunque riproporre un parallelo tra queste folle di astanti e le comunità che nell’Antichità si raccoglievano intorno all’altare di un tempio per assistere alla celebrazione di un sacrificio.
Walter Burkert, lo storico delle religioni antiche che, meglio di ogni altro, ha indagato le ragioni psicologiche del sacrificio, ha individuato nel sacrificio un momento epocale della storia del genere umano. Segnatamente, un momento di inversione, rispetto ad una precedente condizione di precarietà. Io ritengo — i miei studi me ne hanno reso totalmente convinto — che nell’atto ossessivo-compulsivo del fotografare la scena di una catastrofe si ripropongano tali e quali le condizioni psicologiche che Burkert ha individuato nel sacrificio antico.
In tutte le culture antiche che lo praticavano, il sacrificio era sottoposto ad un rituale molto rigoroso. Non lo si poteva officiare secondo modalità estemporanee. Il momento apicale di ogni sacrificio era l’offerta alla divinità di un animale, che veniva condotto sull’altare ed ucciso; quindi, un pezzo sceltissimo, la parte migliore, veniva bruciata. Bruciare un pezzo di carne significa renderlo non più commestibile agli uomini, sottrarlo alle fonti di alimentazione della comunità. Se visto in una prospettiva diversa, il sacrificio comporta sempre uno ‘spreco di risorse’. Il sacrificio poteva istituirsi soltanto in una civiltà di abbondanza, quella che aveva scoperto l’agricoltura e l’allevamento. Non era in uso, infatti, tra i ‘raccoglitori-cacciatori’, che dovevano capitalizzare i magri frutti delle loro cacce per il sostentamento. Ma perché questo spreco? Perché gli dèi si saziassero. Perché sazi della carne e delle libagioni che si offrivano loro, risparmiassero gli uomini. Per millenni gli esseri umani erano stati vittime di predatori più forti di loro, si erano sentiti minacciati da una natura impossibile da dominare. E questo aveva reso la percezione della loro vita come estremamente precaria. L’istituzione del sacrificio segna dunque una inversione. Si ritualizza una offerta (uno spreco) per vincere la paura, atavica, di stare ancora dalla parte delle vittime, delle prede, di quelli a cui tocca morire.
È esattamente questo il meccanismo psicologico che spinge centinaia di astanti a fotografare, riprendere, farsi spettatori ogni volta che la natura o il destino scatenano le loro forze più avverse, ogni volta che occorre un ‘sacrificio’. Anna Freud (la figlia di Sigmund), in un celeberrimo studio sui meccanismi di difesa dell’Io, ha ben individuato i processi sottesi a queste reazioni, in un meccanismo in due tempi di doubling and projection, sdoppiamento e proiezione. Si affida alla vittima (animale sacrificale o vittima di un incidente) un enorme carico d’ansia, il compito di assumersi quel ruolo in cui abbiamo terrore di trovarci.
La mitologia antica offre diecine di casi di sdoppiamento e proiezione. Chiunque, come me, studi le implicazioni psicologiche del ritratto fotografico esperisce quotidianamente questo meccanismo, nelle reazioni parossistiche di soggetti che, messi di fronte alla propria immagine, reindirizzano le proprie ansie irrisolte sul fotografo. Soltanto quando avremo compreso che la fotografia è sacrificio, nel senso più arcaico e irrazionale, potremo davvero studiare quel fenomeno di massa, aberrante ed esecrabile, che oggi ancora liquidiamo, del tutto inutilmente, come “pornografia dello sguardo”.
Paolo Morello