Una calda estate per la giustizia e non certo per le temperature africane. A dare la stura alle accuse rivolte alla magistratura, il “caso Palamara”, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura e presidente dell’ANM, oggetto di inchieste giudiziarie che lo hanno visto accusato per casi di corruzione nell’assegnazione di incarichi di rilievo, come quello di Procuratore della Repubblica. Nel mirino degli inquirenti il suo ruolo di mediatore tra le diverse correnti della magistratura.
Con una tempistica sospetta, la vicenda venne data in pasto alla stampa, impedendo, di fatto, la nomina ai vertici della procura romana di Marcello Viola; candidato più votato dal Csm, indicato (nel corso di un’intercettazione con Palamara) dal pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, come “l’unico che non è ricattabile”, estraneo alle indagini e a tutte le trame che c’erano dietro la nomina del nuovo procuratore di Roma, rispetto le quali risulta parte offesa.
Ma tant’è, l’unico non ricattabile non viene eletto ai vertici della procura capitolina. Non è la prima volta che le inchieste giudiziarie impediscono a Viola di poter ambire a nomine in procure forse scomode per altri, come quando per aver condotto indagini si ritrovò indagato per una presunta violazione del segreto d’ufficio, con l’aggravante dell’articolo 7 per aver favorito la mafia. Prosciolto “nel merito”, ma di fatto impedito – in quanto in quel momento indagato – ad assumere importanti ruoli in altre procure. Un argomento, questo, sul quale torneremo a breve, raccontando di una guerra intestina al mondo degli inquirenti e degli investigatori, con particolari inediti che riguardano le indagini, le dichiarazioni – anche spontanee – di magistrati e quegli atti d’indagine misteriosamente spariti dalla Procura di Palermo e dai supporti telematici di un appuntato della Guardia di Finanza. Una vicenda della quale, qualche giorno fa, si è occupato anche “Il Fatto Quotidiano”.
Gli “affari” interni al mondo della giustizia, non sono soltanto tali, non riguardano soltanto le guerre correntizie, ma hanno risvolti che incidono negativamente e pesantemente nella vita dei cittadini che hanno sempre meno fiducia nella magistratura, anche a causa dei lunghi tempi, e dello strabismo, della giustizia.
A partire dalle indagini, talvolta avviate dopo molti anni, talaltra avviate in poche ore e concluse in tempi record. Gravità del reato? No, la stessa visione che Johnny Stecchino aveva sulle più gravi piaghe che infamano la Sicilia: il traffico e il furto delle banane. Solo che nel caso in specie, non si tratta di un film e il protagonista non è Johnny Stecchino.
La giustizia-lumaca e quella strabica, producono danni immensi, come nel caso dell’ex giudice non togato del Consiglio di giustizia amministrativa, Giuseppe Mineo, condannato a dover risarcire un danno erariale da 315mila euro per aver quasi sempre depositato le sentenze del Cga in ritardo. 388 sentenze in ritardo su 430 procedimenti trattati. La quasi totalità. Se il danno erariale ammonta a 315mila euro, il danno reale subito dalle parti in causa, in quanto si quantifica?
E sempre in tema di record, potremmo citare il caso di quel funzionario dell’Agenzia del Demanio, assolto da un’accusa “perché il fatto non sussiste”, le cui motivazioni della sentenza dovevano essere depositate entro 60 giorni e vennero depositate dopo 16 mesi.
Purtroppo, i limiti temporali fissati (massimo 90 giorni) non sono perentori e di conseguenza, in mancanza anche di un provvedimento sanzionatorio per chi non ottempera nel tempo indicato senza una giusta motivazione, si causano seri problemi a quanti dovrebbero ricorrere in appello o si rischia di mandare in prescrizione i reati.
Tutto ciò senza considerare quanti si trovano in una condizione di custodia cautelare (ovvero non soggetti ancora a condanna definitiva, quindi per la nostra Costituzione innocenti) che in caso di appello devono aspettare i 90 giorni canonici del deposito della sentenza, rispetto i quali può essere chiesta una proroga. Altri 90 giorni ai quali vanno sommati quelli necessari per presentare ricorso, i tempi processuali ecc. In pratica, da innocenti, si possono scontare pene detentive anche di anni. Tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, si calcola che ogni anno oltre mille innocenti finiscono in carcere. Dai primi anni ’90, al 2018, ben 27.344 persone, sono state incarcerate da innocenti. Chi paga? Oltre le vittime ingiustamente carcerate, i cittadini, visto che sono stati pagati risarcimenti per un ammontare di oltre 786milioni di euro.
Ma c’è anche un rovescio della medaglia, quello che in più circostanze il mancato deposito delle motivazioni della sentenza ha permesso anche ai boss di lasciarsi dietro le spalle le porte del penitenziario. Con gli innocenti in carcere e i boss in libertà, una giustizia talvolta giacobina e talaltra strabica, sembra voler intervenire su presunti illeciti applicando un marchio. Lo stesso marchio dell’aggravante dell’articolo 7, l’aver favorito la mafia (utilizzato nei confronti di due magistrati che conducevano indagini che riguardavano il boss latitante Matteo Messina Denaro) utile a ridurre i diritti e le garanzie del cittadino, facendo leva, nell’immaginario collettivo, sulla parola “legalità”, con la quale, più che in fatto e in diritto, l’amministrazione della giustizia viene affidata al convincimento del pm di turno e all’esposizione mediatica della vicenda.
Fin quando non supereremo quell’ipocrisia tutta italiana del volere ignorare ciò che è sotto gli occhi di tutti e fino a quando nessuno si indignerà per i boss rimessi in libertà, per le migliaia di innocenti incarcerati e per un sistema giustizia che è palese fa acqua da tutte le parti, non si arriverà mai a una riforma che garantisca i diritti del cittadino e sancisca – una volta per tutte – la responsabilità di magistrati ignavi o che anziché amministrare la giustizia la gestiscono come fosse un potere assoluto, con corsie preferenziali, colpevoli ritardi e urgenze che tali non sono, azzerando il giusto equilibrio che deve esistere tra la tutela collettiva e i diritti soggettivi e avvalendosi troppo spesso di iniziali ipotesi di reato utili a ridurre i diritti e le garanzie del cittadino.
Con gli innocenti in carcere e i boss in libertà, possiamo solo augurarci un evento che faccia saltare il coperchio della pentola (come è stato il caso Palamara per le vicende legate alle correnti della magistratura) che ci costringa ad aprire gli occhi e ridare alla magistratura il ruolo di ordine autonomo e indipendente e non di potere legato ad altri poteri.
Gian J. Morici
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