Meritocrazia «nell’interesse dei magistrati, certamente, ma in primo luogo dei cittadini», precisa, raggiunto al telefono l’avvocato Pasquale Cardillo Cupo. E, insieme alla meritocrazia, quella misura su cui si discute da anni: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. «E’ una riforma che il paese attende da anni», dice Cupo, «e mi auguro che la proposta di legge di iniziativa popolare in tal senso arrivi in Aula il 27 luglio. Mi risultata che la questione sia sparita dalla Commissione Affari costituzionali della Camera ed è un brutto segnale. A maggior ragione dopo la vicenda Palamara».
Che insegnamento ci consegna la vicenda che vede coinvolto Palamara?
«Guardi, sono anni che noi avvocati penalisti diciamo che la separazione delle carriere non è contro qualcuno, ma a favore di una giustizia più giusta. Nella magistratura, come peraltro in altri ordini, ci sono delle correnti e delle posizioni di prestigio alle quali i magistrati ambiscono, legittimamente, in determinate occasioni. E’ normale ed ovvio che un magistrato abbia delle ambizioni, il fatto è che tutto questo, nel momento in cui c’è un unico corpo della magistratura che non fa differenziazioni tra organo inquirente e requirente finisce per creare delle disfunzioni quando non delle vere e proprie patologie. Le faccio un banalissimo esempio: secondo lei quale imparzialità di giudizio poteva avere un giudice che ambiva ad andare a ricoprire un ruolo di prestigio, rispetto ad una indagine svolta da Palamara, quando era evidente che Palamara aveva acquisito un ruolo politico giudiziario assai rilevante nel determinare le carriere dei suoi colleghi? E’ davvero convinto che avrebbe giudicato con serenità ed imparzialità? Un giudice per sua natura deve essere imparziale, però i fatti che abbiamo letto sui giornali in questi mesi ci dicono altro. Insomma, per poter funzionare il sistema deve avere al suo interno degli anticorpi».
Ma le correnti in magistratura sono un bene o un male?
«Che ci siano delle correnti non è certo un fatto criminale, anzi fa parte della dialettica democratica. Ben vengano dunque le correnti che si costituiscono e agiscono sulla base di idee e di programmi. Il problema è quando le correnti si trasformano in strumenti di pressione, sorta di camera di compensazione in cui si scambia qualcosa in cambio di qualcos’altro».
Non c’è il rischio che con la separazione delle carriere finisca per sterilizzare di fatto l’esercizio indipendente della giurisdizione? Non basta la separazione delle funzioni a garantire la trasparenza?
«Basta guardare quel che è accaduto in questi anni per rispondere alla sua domanda con un no. No, non basta. Qui non si tratta di mortificare i pubblici ministeri e metterli sotto l’ombrello del potere esecutivo, come pure qualcuno va dicendo. Anzi, con due diversi Csm i pm vedrebbero riconosciuta in pieno la loro specificità. Non trovo nulla di scandaloso nel fatto che vi siano due diversi concorsi di reclutamento e due diversi Csm. Csm che rimarrebbero sempre e comunque organi autonomi e indipendenti dalla politica. Fino ad oggi noi abbiamo avuto un potere politico che è intervenuto spesso e volentieri per mettere il becco nelle vicende della magistratura e, d’altro canto, abbiamo avuto una magistratura che è intervenuta sulle dinamiche della politica con la rudezza di un elefante nel classico negozio di cristallerie. La vicenda ultima che riguarda Berlusconi e la sentenza Mediaset è esemplare. Le parole del magistrato Amedeo Franco, deceduto nel maggio 2019, sono un atto di accusa gravissimo che evidenziano quanto le commistioni tra politica e magistratura possano essere perniciose. Berlusconi doveva essere condannato ‘a priori’».
Torniamo alla questione meritocrazia. Cosa intende per meritocrazia in magistratura?
«Vanno finalmente valutate come meritano competenze e bravura. Trovo intollerabile ad esempio che chi ha condannato Tortora definendolo un mafioso sulla base del nulla abbia fatto carriera. Errare è umano, è vero, ma è anche vero che chi sbaglia paga. E, ancora, abbiamo magistrati che progrediscono nella carriera sulla base dell’anzianità di servizio. Un giudice che, per esempio, fa 30 sentenze in primo grado che poi in appello vengono tutte riformate può avere lo stesso scatto di carriera di quel magistrato che su trenta sentenze se ne vede confermate 28 e annullate solo due? Per fare il presidente di Corte d’Appello oggi devi avere 25-30 anni di anzianità. Stop. Poi se tu sei bravo o meno non interessa a nessuno. E’ ovvio che questo meccanismo così com’è non funziona e finisce per alimentare il più deteriore correntismo. Quello che occorre fare con urgenza, a mio avviso, è immettere la qualità, per cui si va a ricoprire un ruolo solo se si è conseguito un determinato ‘punteggio’ e nella propria attività di magistrato si è dimostrato di applicare rigorosamente le regole e la legge, senza mai lasciarsi guidare dal sensazionalismo. Una selezione dei migliori sul campo, non sui divanetti di qualche albergo, come ci insegna la vicenda Palamara. Guardi, di avvocati ce ne sono tanti, ma non tutti si distinguono per eccellenza nell’esercizio della loro professione. Allo stesso modo di magistrati ve ne sono tanti, ma non tutti sono eccelsi nel loro ruolo per differenze naturali, culturali, personali e professionali, ragione per cui i magistrati bravi e competenti devono vedere riconosciuta e premiata questa loro bravura. Se si affermasse la Meritocrazia gli errori giudiziari diminuirebbero sensibilmente ed i cittadini tornerebbero ad avere piena fiducia in una delle funzioni più importanti di uno Stato democratico e di diritto come il nostro. Sono pronto a scommetterci».