C’è quasi una forma di sadomasochismo nella ricerca dei numeri, che ci allontana dalla sofferenza, dal dolore, quasi che anestetizzasse le morti. O forse è la speranza, la speranza che le cifre si riducano, che le percentuali si abbassino, che quest’epidemia finisca presto.
Sembra che per un motivo o per l’altro, si viva in attesa della conferenza stampa della sera, quando ci dicono quanti sono i contagiati in più rispetto ieri, qual è il totale dall’inizio dell’epidemia, quanti i guariti, quanti i morti. Già, i morti, quelli che sono di più o di meno di ieri. Poco più o poco meno, come se dietro ogni numero non ci fosse una vita che spegne, un dolore, una sofferenza. Stiamo lì a crogiolarci nell’asetticità dei numeri, quelli senza volto, senza lacrime, senza paura.
La tv ci ha abituati ai programmi del dolore, quelli che ci mostrano la sofferenza degli altri quasi che potessero allontanare da noi la paura per le nostre sofferenze. Il coronavirus ha preso il posto dei processi mediatici, delle brutte storie, degli omicidi più orrendi. Quelle storie che ci prendevano trasformando ognuno di noi in giudice, in avvocato della difesa, in investigatore. Già, ma i morti restavano morti e nulla cambiava nonostante il nostro morboso accanimento, alimentato dagli sciacalli del circo dell’orrore.
Il mostro in tv – che non sempre è tale – la vittima, la loro vita privata buttata in pasto a noi giudici e avvocati di bocca buona, che senza alcuna conoscenza dei fatti emettevamo sentenze inappellabili. La saga del sangue, dell’orrore, delle emozioni simulate dagli imbonitori televisivi dei programmi del dolore.
Oggi, il coronavirus ha annullato anche le vite private, lasciandoci soltanto i numeri. Quei numeri che per alcuni sono la normalità, perché statisticamente non sono diversi da quelli dello scorso anno, per altri invece no, sono il segno tangibile di questo brutto momento. I numeri, quelli sui quali dibattiamo sui social perché noi sappiamo tutto, siamo in grado di capire, di valutare l’andamento di quest’epidemia che per alcuni continua a essere un raffreddore, mentre per altri è una pestilenza. Con quanto morboso accanimento cerchiamo questi numeri…
Poi, dopo i numeri su scala nazionale, ecco che cerchiamo quelli più vicini a noi, quelli della nostra regione, della nostra provincia, della nostra città. Cerchiamo tra questi il vicino di casa, il conoscente, il contagiato vivo, il morto.
Non c’è più Amanda, non c’è più la Franzoni, oggi il dolore, l’orrore, si chiama Covid-19. Per fortuna esiste ancora una parte di questa umanità che cerca l’eroe buono, il medico, l’agente, l’infermiere. Cerca la speranza. Il Lazzaro resuscitato, il sopravvissuto. Stiamo lì, ognuno a modo suo ad esorcizzare il male, la paura, la morte.
Siamo prigionieri del virus. Siamo agli arresti domiciliari, ma prima ancora che prigionieri di questa epidemia, siamo prigionieri del nostro essere umani, delle nostre paure ancestrali, del nostro bisogno di esorcizzare il male, di vederlo negli altri come se anche questo mettesse una distanza sociale tra noi e il dolore, tra noi e la paura.
È la nostra misera natura umana, quella di chi – forse ancora più pauroso degli altri – sfida il virus ma cerca nei numeri la normalità delle morti, come se qualcosa o qualcuno potesse dirci quando sono normali e quando non lo sono. Come se la morte quando riguarda gli altri, i senza volto, quelli lontani da noi, si potesse trasformare soltanto in una cifra. Una cifra “normale”. E intanto, il nostro essere piccoli uomini, con tutte le nostre miserie, le nostre paure, viene fuori lo stesso quando neghiamo i camion militari che trasportavano le bare, ma uscendo indossiamo la mascherina.
Non so se stasera guarderò i numeri…
Gian J. Morici