Nutrivo delle aspettative. Il freddo è pungente, ma al sole tutto sommato si sta bene. Basta coprirsi adeguatamente senza troppo appesantirsi. L’aria adesso è frizzante e buona: appena scesi dall’aereo lo smog la intorbidava di una foschia densa e grigiastra, lasciando trasparire appena il disco del sole, accentuandone i colori, come un grosso tuorlo che spicca dall’albume cereo del cielo, perfettamente visibile, e permettendo anzi di essere guardato a lungo senza ferirsi gli occhi. Appena fuori l’aeroporto ho avvertito un benefico vento che per fortuna ha spazzato subito via gran parte dello smog. Un addetto dell’Ambasciata italiana si fa riconoscere. “Eccoci”. “Bongiolno, bongiolno: Fato bene viagio?” Qualche parola riesce pure a dirla, il nostro autista. “Io lavolale Istituto Cultula” . Parla proprio così, come ti aspetti quando un cinese parla in italiano, con la “elle” al posto della “erre”, che non fa parte del loro bagaglio fonetico.
Beijing te l’aspetti fitta di gente in riksciò, vestiti tradizionali, strade caratteristiche. Invece il centro che frequentiamo, attraversando Wangfujing, la via principale, somiglia troppo a un qualunque ricco centro commerciale occidentalizzato, invogliante allo shopping di qualsiasi tipo, con i suoi grattacieli diventati ormai loro la vera attrazione – uno in particolare riproduce la pendenza della torre di Pisa, proprio vicino al nostro bell’albergo. “Essele allivati”. Questo quando parla è più divertente di una parodia. Il sorriso di Ila contagia gli avventori e i fattorini dell’albergo, riconoscibili dalla divisa nera e i guanti bianchi, i quali ci aiutano a portare dentro i bagagli, accompagnandoci al chek in. “Ma ccà nni capiscinu?”, dice Anto, proteggendo con il braccio la sua preziosa chitarra nella custodia a tracolla. “Cantaci ‘na canzuna antica”, gli dico. E Ila naturalmente ride, esplodendo in una di quelle sue risate piene e aperte che dicono molto più di ogni altra cosa la nostra presenza lì. La settimana della cultura italiana, organizzata dal Ministero degli Esteri, attraverso i vari Istituti Italiani di Cultura sparsi nel mondo. Siamo stati scelti per una performance pirandelliana, all’intero delle ricorrenze istituzionali e accademiche per il centocinquantesimo anniversario della nascita del grande drammaturgo agrigentino.
Il tempo di occupare le camere, usciamo tutt’e tre per renderci conto dei luoghi. Un centro fatto anche di anelli autostradali enormi, larghissimi, brulicanti di auto di cilindrata medio-alta, tutte nuove o quasi, i caratteristici taxi marroni-verdi, e un’infinità di biciclette “urbane” posteggiate in lunghissime e ammassate file rosse e gialle sui marciapiedi, pronte ad essere usate dai passanti con un semplice clic su di un’app del telefonino che le sblocca, ma poco accessibile a chi non è cinese, mettendo il conto a carico della banca virtuale. Le strisce pedonali sono lunghe decine di metri e attraversarle ha del miracoloso, su queste lunghissime e larghissime arterie di asfalto su cui circolano, oltre alle auto, infiniti motorini elettrici, guidati con una specie di scafandro che copre i comandi del manubrio e dentro cui le mani possono agire alla guida indisturbate, al riparo da pericolosi congelamenti. Il cibo non è male, gustoso, economico, abbordabilissimo: le zuppe di verdura e funghi sono le mie preferite.
Sulla carne ho qualche resistenza. Parlano di polli, ma un’insegna mi suggerisce cose a me non molto gradite: Cat barbecue! Chissà a cosa si riferisce. O a quella leggenda metropolitana sui cani. Meglio evitare, penso, mentre l’olezzo di aglio penetra ogni cosa, dal respiro pesante dei passanti, soprattutto all’ingresso e all’uscita della metropolitana. L’aglio di Piazza Tienanmen è meno percepibile, disperso dall’immensità di un potere ormai radicato, e mitigato dalla presenza di numerosi turisti che ammirano i simboli della rivoluzione culturale, il Parlamento, il Museo, il Mausoleo di Mao Tse Tung e i carri armati dell’’89, proprio addossati alla Storia plurimillenaria dell’Impero Celeste, ormai reclusa dentro le mura monumentali della Città Proibita, la più grande attrazione di Beijing insieme alla Muraglia Cinese. Un divertimento, o un godimento da turisti, ormai depotenziato nel suo valore di reale simbolo e ridotto a mera fruizione spettacolare, con i suoi prezzi salati per i frequentatori e i suoi alti guadagni per lo Stato. Anche se qua e là traspare il segno tangibile di un Potere che non ha mai abdicato, sottoforma di poliziotti armati fino ai denti, e le file controllate all’entrata e all’uscita dei maggiori complessi monumentali, con i metal detector e le perquisizioni, mentre all’apparenza il capitalismo sembra essersi radicato in una forma nuovissima o forse del tutto inattesa: durante la guerra fredda i rapporti di forza erano chiari, la Cina era per così dire la via alternativa del comunismo, dietro ai sovietici, e un occhio di riguardo a Tito. E le forze in campo erano ben schierate: il capitalismo liberale occidentale da una parte e il Comunismo statalista, dittatoriale e accentratore dall’altra. Adesso in Cina entrambe le anime convivono ibridamente in una escalation che la sta portando a detenere il potere economico mondiale. Sarà un caso che in questi giorni ho avvistato almeno due visite di Stato da parte di Presidenti africani, che accolgono gli investimenti dei cinesi, i quali si vanno radicando sempre più nello sfruttamento intensivo delle immense risorse d’ogni genere del Continente Nero: petrolio, gas, minerali preziosi, su cui spicca il coltan, e parecchio altro. I cinesi in Africa stanno costruendo la strada trans-continentale che unisce l’Oceano Indiano all’Atlantico, e i contratti accettati, firmati e garantiti dai Paesi africani prevedono che i cinesi diventino proprietari di qualunque materia-prima che trovino sopra e sotto l’itinerario stradale, lasciando però in cambio opere pubbliche, come ospedali e servizi vari. Cosa che gli americani, sentenzia qualcuno, sostituiti dai cinesi, a dire il vero non hanno fatto.
Ma il mio sguardo e il mio pensiero è ancora fermo su questa grande Piazza Tienanmen, proprio all’ingresso della Metropolitana su cui mi scatto una foto “alla cinese”, con il berretto giusto. Quello che so di Piazza Tienanmen è già storia risaputa. Mi fa un certo effetto rivedere luoghi visti in Tv, nell’89, dove un ragazzo, uno studente che inneggia alla Democrazia, si contrappone a un carro armato. Sembra che Maggio faciliti le rivoluzioni. E Giugno le loro repressioni. E sono sempre gli studenti, la parte più vivace e consapevolmente matura di una società in crisi a chiedere un Cambiamento, che non significava allora semplicemente una revisione di regole troppo repressive del costume, ma di permettersi un valore che pochi in Cina potevano e possono tuttora realmente permettersi: la Libertà, conquistata democraticamente. E questo chiedevano gli studenti, mettendo sotto uno sgraditissimo assedio mediatico il sistema di potere politico cinese, composto di burosauri post-comunisti ormai contemporaneamente già svezzati e pronti al neocapitalismo. Contemporaneamente, sì. I cinesi hanno sempre difeso la loro identità con fierezza: la rivolta dei boxeur contro l’invasione giapponese fu combattuta a suon di Kung Fu, che ridimensionò per un momento il Karate giapponese; così come la decadenza dell’Impero Celeste determinò l’ascesa al potere di Mao, con la sua Rivoluzione culturale e la sua Grande Marcia. Ma chi ottiene il Potere, in Cina come dovunque, non è certo disposto a cederlo così facilmente. La Democrazia è intollerabile per i fascismi appunto per questo! Perché il Potere deve passare di mano, in un’alternanza di equilibri sani. Per quanto anche questo, nelle nostre democrazie, in realtà si stia realizzando sempre meno. Ma questa è un’altra Storia.
L’ultimo Imperatore il potere lo cedette a Mao Tse Tung, i cui eredi non sanno nemmeno cos’è la Democrazia. La nazione più popolosa del mondo ha una forza lavoro incredibilmente concorrenziale, dato che i diritti civili e umani non sono certo garantiti come nelle nazioni occidentali (per quest’ultime almeno sulla carta)! La forza-lavoro dei cinesi è pazzesca, a un costo irrilevante, per cui producono enormi quantità di merce a bassissimo costo che invadono il mercato sotto ogni forma, dal contrabbando a quello ufficiale, rendendole più competitive rispetto a quelli degli altri paesi, le cui aziende qui avrebbero trovato il loro eldorado, il sogno di ogni imprenditore, produrre a bassissimo costo e vendere a prezzi competitivi, con enormi guadagni. Mah, qui la gente è abituata a mercanteggiare all’inverosimile, fino allo stremo delle forze, per ogni cosa, anche la più banale, più dei venditori ambulanti siciliani, più degli Arabi, più dei tunisini e dei mercanti Egiziani, che finora ritenevo imbattibili. E i prezzi di riferimento sono ovviamente quelli occidentali. Molti turisti ci cascano, anche nei ristoranti, dato che i cinesi frequentano ben altri posti e a ben altro prezzo. Ma capito il meccanismo ci si ingegna alla bisogna, e parte un’estenuante trattativa per comprare un comunissimo foulard, che sarà pure di seta, ma non può essere contrabbandato a costi doppi di una qualunque boutique nostrana. E alla fine, se ti piace, lo prendi, capisci anche che alcuni oggetti sono davvero di valore, e finalmente lo compri a un prezzo spesso dieci-quindici volte meno della richiesta iniziale. Da non crederci! Come i riksciò moderni, una sorta di piccole moto-api, alimentate a batteria, che potrebbero trasportare un paio di turisti a volta, e con una richiesta di prezzo almeno tripla rispetto a quella dei normali taxi che pure circolano in abbondanza. Il fatto è che i cinesi hanno un senso della parola data molto elevato, per cui bisogna mercanteggiare sempre prima, dopo di che ti rispettano. Ma gli equivoci dovuti alla lingua sono sempre all’ordine del giorno, e su questi equivoci i guidatori più furbi fondano la loro ben congegnata truffa. Nulla di male, a riferirsi alla quantità di denaro comunque ben al di sotto, spesso, dei nostri trasporti. Ma è quel fastidiosissimo senso di presa per il culo – di truffa – che non sopporti e non ti fa sorvolare, incaponendoti pure tu su posizioni che normalmente non occuperesti.
Ma oggi finalmente all’Istituto italiano di Cultura, diamo sfoggio della nostra cultura siciliana e pirandelliana, una platea fitta fitta di insegnanti, imprenditori, studenti cinesi, persino curiosi, che sono venuti ad ascoltarci, mentre una traduttrice cinese intesse le necessarie connessioni tra noi e la platea:
– Liolà è un personaggio ruspante, pieno di vita, energetico, uno bello e simpatico quasi quanto me.
La traduttrice ride subito, aspetta un po’, si ricompone e traduce, e anche la platea adesso ride. E io continuo, sornione:
– E poi, riconosciamolo, anche Liolà, quasi quanto me, piace alle donne.
E guardo la traduttrice con intenzione. Quasi se ne imbarazza, e scoppia a ridere. Tutti la guardano straniti. Ma poi traduce. E anche gli altri ridono. Anto proprio adesso intona la sua antica melodia, accompagnandosi alla chitarra, cantando come Liolà:
– Arsira mi curcavu a lu sirenu;
li stiddi foru ca m’arripararu …
E Ila, già pronta al dramma della Madre nella Favola del figlio cambiato:
– Se volete ascoltare questa favola nuova, credete a questa mia veste di povera donna; ma credete di più a questo mio pianto di madre per una sciagura, per una sciagura …
Complimenti! E prosita veru!