Accade spesso di leggere della solidarietà espressa dai politici ogni qualvolta un uomo in divisa muore per un incidente in servizio, durante un conflitto a fuoco, perché distrutto psicologicamente decide di togliersi la vita. È la corsa alla solidarietà da parte di quel mondo politico sempre diviso, ondivago anche su temi che dovrebbero unire per trovare le soluzioni e che invece ci fanno assistere a una politica urlata che ha un unico scopo: raccattare qualche consenso togliendolo all’avversario.
Poi tutto finisce lì. Si torna sulle poltrone girando le spalle al dolore, alle lacrime di un bambino, di un genitore o di un coniuge. La vita continua, in particolare per chi ricorre a quella solidarietà pelosa che altro non è che l’ipocrisia di quei tanti lacchè che, all’infuori delle promesse del momento, continueranno a non far nulla nascondendosi dietro una spessa barriera di conformismo e viltà.
Ma questa è la politica, quella inconcludente, quella della malafede che porta a speculare anche sui morti, quella della quale abbiamo scritto più volte dinanzi al dramma di una divisa che si suicida, dinanzi alla morte di chi si trova messo a un bivio tra salvare la propria vita – subendo tutte le conseguenze di una giustizia che appare sempre meno giusta – oppure lasciare al fato la decisione se vivere o morire, se una pallottola lo ferirà o se i suoi cari dovranno piangere dietro un feretro.
Una decisione che non riguarda solo la vita o la morte ma spesso anche le singole scelte che si fanno quotidianamente cercando di fare del proprio meglio, perseguendo soltanto il fine della Giustizia che spesso s’infrange su regolamenti e leggi che non tengono conto del perché si è commesso un errore. E allora son guai. Un servitore dello Stato, di uno Stato nel quale ha creduto, si ritrova ad essere trattato alla stregua, se non peggio, di quei delinquenti che ha combattuto.
Li avevano definiti le “talpe di Matteo Messina Denaro”, quando il 16 aprile 2019, i carabinieri del Ros arrestarono il tenente colonnello dei carabinieri Marco Zappalà, in servizio alla Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta, l’appuntato dei carabinieri Giuseppe Barcellona di Castelvetrano e l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, nell’ambito di un’inchiesta su presunte fughe di notizie in merito a indagini relative al boss latitante Matteo Messina Denaro.
Scarcerato Vaccarino, a seguito dell’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare da parte del Tribunale del Riesame, venne annullato anche l’ordine di custodia in carcere emesso dal Gip nei confronti dell’appuntato Barcellona, accusato di accesso abusivo a un sistema informatico e di aver fornito al colonnello Zappalà notizie riservate. Durante l’interrogatorio di garanzia, Barcellona aveva ammesso davanti al Gip di avere consegnato il verbale al colonnello Zappalà, ritenendo che non ci fosse alcuna anomalia nell’aver esaudito la richiesta del suo ex superiore.
Il riesame, nell’accogliere la tesi difensiva di Barcellona fece cadere l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, confermando l’accusa di accesso abusivo al sistema informatico.
Passano i mesi e leggendo i giornali ti rendi conto di come il vecchio luogo comune secondo il quale “ne uccide più la penna che la spada”, sia quanto mai attuale. Sempre più spesso ci accorgiamo come pur di ottenere un click in più sul web o assicurarci un lettore in più sulla carta stampata, siamo disposti a passare sul cadavere di chiunque, incuranti del suo dolore, dei suoi affetti, della sua storia. E lo facciamo nel modo peggiore, ignorando uno dei principi fondamentali del giornalismo, ossia quello della ricerca della verità alla quale attenersi.
Leggi un titolo e sobbalzi: “Fuga di notizie sul boss, l’appuntato inguaia il colonnello”. L’estensore dell’articolo scrive di versione fantasiosa data da Barcellona al GIP subito dopo l’arresto; che sarebbe l’autore di una “fuga di notizie potenzialmente a favore del superlatitante per eccellenza”; che ha “cambiato idea” sulle sue dichiarazioni e che per questo vi è stata la richiesta di incidente probatorio; che “Barcellona davanti al giudice Morosini e ai PM aveva provato a negare tutto, dicendo che i rapporti con Zappalà erano tesi”.
Semplicemente un compendio di castronerie, se non fosse che dietro ognuna di quelle parole c’è un uomo, la sua famiglia, la sua storia di fedele Servitore dello Stato, il suo dolore per quanto gli è accaduto.
Eppure sarebbe stato sufficiente leggere gli atti per “scoprire” che le dichiarazioni dell’appuntato erano state ritenute veritiere – e non certo fantasiose – dal Pubblico Ministero e che Barcellona non è accusato della presunta “fuga di notizie potenzialmente a favore del superlatitante per eccellenza” ma di accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di ufficio in favore di un Colonnello della Dia con il quale aveva anche lavorato in precedenza.
Non è la prima volta che un appartenente alle Forze dell’Ordine si trova a poter commettere un errore, tant’è che è proprio di questi giorni la condanna a sei mesi (pena sospesa e non menzione) di un ispettore di polizia, accusato di rivelazione del segreto istruttorio, per avere passato dati investigativi in merito a un omicidio, ad un pregiudicato che in quel momento era una fonte confidenziale usata per una indagine.
In quel caso – nonostante si trattasse di una vicenda ben diversa da quella del Barcellona che avrebbe reso informazioni a un ufficiale dell’Arma e non all’esterno delle istituzioni – i giudici hanno evidentemente compreso che l’ispettore (inizialmente accusato anche di favoreggiamento alla ndrangheta) aveva agito, seppur commettendo un errore, nell’interesse della Giustizia.
La richiesta di incidente probatorio, nel caso di Barcellona, non è motivata da nessun cambiamento d’idea da parte dell’appuntato, la cui attività e le cui qualità morali e professionali, oltre che ad emergere dalla sua storia, vengono testimoniate quotidianamente – anche pubblicamente sui social – da tanti suoi colleghi.
Perché dunque questo gioco al massacro mediatico?
Da dove poi il giornalista abbia attinto la notizia secondo la quale Barcellona dinanzi al Gip e ai PM avesse negato tutto, resta un mistero. Altri giornalisti, come nel caso di Tp24, ne hanno narrato la storia con maggiore oculatezza e precisione, raccontando di un Carabiniere che avrebbe voluto mettere i Ros nelle condizioni di catturare Matteo Messina Denaro.
Usare la penna senza riflettere sulle conseguenze che la stessa ha sulla vita delle persone, aggiungendo del proprio a una vicenda ancora in attesa di giudizio, è così diverso dall’impugnare una spada? O come per i politici, che poi esprimono la loro ipocrita solidarietà, possiamo poi tornare alle nostre scrivanie girando le spalle al dolore e alle lacrime che noi stessi abbiamo causato?
“Ne uccide più la penna che la spada”, ma un giornalista non è un killer…
Gian J. Morici
Dietro questa lurida vicenda c’è ben di più ma non a carico del mio amico Giuseppe. Penso che si è voluto colpire il colonnello per altri oscuri motivi… per tirarlo fuori dal mazzo di carte impiegate in una partita molto diversa che non riguarda certamente il latitante.
A Giuseppe dico che ciò che non uccide rinforza.