La strage silente delle divise
Ieri, è toccato a T.R., Alpina del Settimo Reggimento, impiccatasi nel proprio alloggio nella caserma Salsa di Belluno. Un numero, un nome tra i tanti. Certamente non è così per i familiari, per i colleghi più vicini, per quanti l’hanno stimata e voluta bene. Il motivo di un gesto estremo, probabilmente, ancora una volta, verrà individuato nelle condizioni psicologiche e nei problemi personali della giovane soldatessa.
Non importa quale che sia la divisa che indossano. Militari, carabinieri, penitenziaria, poliziotti e finanzieri, sono le vittime di una guerra non dichiarata che troppo spesso viene archiviata motivandola con le ragioni personali. Alla strage di militari esposti a uranio impoverito – rispetto la quale per anni i governi che si sono succeduti hanno tentato di insabbiarne le responsabilità – si aggiungono le vittime di un malessere diffuso tra chi indossa una divisa: il suicidio!
Le vittime di questa Caporetto, che sono di gran lunga superiori alle morti che avvengono nel corso delle missioni all’estero che vedono la partecipazione delle nostre Forze Armate, vengono ignorate dai media, sottaciute dai comandi di appartenenza che si affrettano a chiudere quella che per loro è soltanto una “pratica”, motivandone la causa con le ragioni personali, sentimentali, familiari o altro, guardandosi bene dal cercare di capire un “mal di caserma” sempre più diffuso.
Giovani che durante il servizio si chiudono in un bagno per porre fine con un colpo di pistola alla propria vita, militari che si impiccano, sottufficiali con una lunga carriera alle spalle e agenti che quotidianamente affrontano i rischi di una professione difficile, vengono “cancellati” dagli attivi in servizio con un colpo di spugna, come fossero soltanto un fastidio per i loro vertici.
Se anche fosse come i ministeri di appartenenza tendono a far apparire – ovvero per situazioni personali difficili – c’è da chiedersi come mai non ci si sia accorti prima di questo malessere e perché non si è intervenuti in tempo per salvare una vita umana che non è soltanto un numero di matricola su un foglio.
A cosa servono dunque i test e le visite dallo psicologo a cui sono sottoposti quanti indossano una divisa? Mero aspetto burocratico in quest’Italia che della burocrazia ha fatto la propria bandiera?
È approfondendo le ricerche, che si scopre un mondo diverso. Condizioni di lavoro impossibili, turni di riposo non rispettati, “cazziatoni” continui da parte di ufficiali che spesso – e sono proprio coloro che ricorrono a continui richiami – non hanno mai smosso le chiappe dalla propria poltrona, gruppi whatsapp per tempestare, giorno e notte, i propri sottoposti con messaggi di servizio e rimbrotti.
Le Forze Armate collaborano con la massima trasparenza e disponibilità per accertare i fatti. Questo è quanto sentiamo ogni qualvolta si parla di suicidi tra le divise. Ma quale trasparenza e disponibilità ci può essere se perfino i commilitoni delle vittime sono restii a profferir parola, consci delle conseguenze che ne subirebbero?
Le condizioni di salute mentale, spesso viste come causa del suicidio – che raramente è causato da un singolo fattore – vengono vissute quasi con vergogna dalla futura vittima, e con il timore di conseguenze per la propria carriera. Ignorate da colleghi e superiori che talvolta preferiscono girarsi da un’altra parte per non vedere.
Non c’è disonore nel bisogno di aiuto, come non c’è onore nel lasciare da soli quanti hanno bisogno. Il “non si lascia nessuno indietro”, resta una bella frase da recitare, ma poi, nei fatti, chi resta “indietro” rimane solo con sé stesso, con i propri problemi e con la soluzione estrema che in quel momento gli appare come l’unica via d’uscita da una condizione di vita impossibile.
Quali strategie sono state studiate per supportare i nostri militari e le loro famiglie in anticipo con una solida rete per non perdere un uomo o una donna in divisa a causa di un suicidio?
Di quali strumenti e risorse sono stati dotati i comandanti per identificare quanti soffrono e prevenire i suicidi?
Se lo stress da combattimento può essere alla base di molti pensieri suicidi, c’è da chiedersi cosa spinge ad un gesto estremo agenti e militari che, in teoria, non dovrebbero essere sottoposti a tali forti stress. Il “mal di caserma” è un malessere oscuro. Il suicidio, considerato un tabù, in ambito militare diventa un atto profondamente vergognoso. Se solo riuscissimo ad eliminare questo stigma – e le conseguenze di un dichiarato momento di crisi – molto probabilmente le persone in difficoltà denuncerebbero il proprio malessere e potrebbero essere aiutate prima che sia troppo tardi.
La sofferenza, la privazione, l’affaticamento, l’isolamento, la depressione, l’estremo atto finale, non possono e non devono essere ridotti a grafici e note sui documenti di un qualsiasi comando o ministero.
Se non è il sangue versato per la Patria, se non è quello versato per la Giustizia, se non è quello causato dallo stress da guerra, c’è qualcosa di veramente grave che non funziona.
Forse alla base di un soldato (o appartenente alle Forse dell’Ordine) che si “rompe” c’è un vissuto fatto di servizi, stress fisico e psicologico, stanchezza, ma anche un non vissuto. La mancanza di gratificazioni, il non far sentir forte lo spirito di corpo, la mancanza di solidarietà dei colleghi, di quella grande famiglia alla quale hanno creduto di aderire arruolandosi per fuggire da una società egoista nella quale ogni uomo vive per sé stesso, salvo poi scoprire l’aridità dell’essere soltanto un numero, la burocrazia di quei numeri, l’ipocrisia e il non poter contare su quella famiglia per la quale si sarebbe data la vita. Una grande famiglia che ti ha girato le spalle, lasciandoti solo dinanzi una corda o una pistola con il colpo in canna…
Quanti uomini e donne in divisa dovremo perdere ancora, prima che i loro vertici si rendano conto che esiste un “mal di caserma” che non deve essere più nascosto ma studiato e risolto? Come non considerare tra le cause di gesti estremi anche la qualità dei servizi, la mancanza di riposo, gli spesso inutili “cazziatoni” il cui unico scopo è quello di far sentire “importante” un comandante? Provate a indagare sugli orari dei servizi, sui turni di riposo non rispettati, sulle vessazioni subite e forse troverete la risposta a quel male del quale non si vuole parlare.
Ogni divisa che si suicida, dovrebbe essere vissuta come una vergogna da chi non ha fatto nulla per impedirlo – o, peggio ancora, ne è stato anche concausa – salvo nascondere il proprio fallimento e le proprie responsabilità archiviando il caso come condizioni di salute mentale per problemi personali…
Gian J. Morici
Non mi sarei permesso di aggiungere un passaggio polemico a un articolo su un dramma umano che merita il massimo rispetto, se questa aggiunta non offrisse uno spaccato nudo e crudo dell’aridità umana che si mostra nella sua completa bassezza anche dinanzi a eventi tanto gravi, quale il decesso di una giovane donna in divisa. Proprio su questa aridità umana e sulle possibili conseguenze, sarebbe il caso di riflettere, affinché il già lungo elenco delle/dei T.R. non debba continuare ad allungarsi ancora per cause a volte indipendenti da vicende personali.
Questo articolo era stato postato su una pagina Facebook dedicata alle Forze Armate. Purtroppo, a differenza che in altri gruppi formati anche quelli da appartenenti alle F.F.A.A. e F.F.O.O., l’amministratore del gruppo di cui sopra (che non cito per rispetto ad altre persone che ne fanno parte e di ben diverso spessore rispetto chi ha risposto) ha deciso di non pubblicarlo.
Il motivo, diversamente da quanto si potrebbe legittimamente pensare, è l’aver usato il termine “Alpina” anziché “Alpino Donna”. Una questione, più che di penne, di mera lana caprina, che dimostra la scarsa attenzione di taluni ufficiali rispetto la sostanza delle cose, alla quale preferiscono il rispetto della forma.
Questo il post pubblico dell’ufficiale in questione:
Non essendo, per mia e sua fortuna, un sottoposto di cotanto ufficiale che – ignorando la perdita di 42 Servitori dello Stato a causa di suicidi nel solo anno 2019 – si attacca ad approcci linguistici formali, ponendo in secondo piano la vita di chi serve con Onore la Patria, la bandiera, un ideale, ho rigirato il “cazziatone” (termine riportato già nell’articolo in riferimento a taluni richiami) al quale evidentemente è o era avvezzo, con una risposta che lo ha costretto a cancellare immediatamente il suo post e il mio commento.
Un “cazziatone” fondato sulla scarsa sensibilità mostrata verso una vita umana, sulla scarsa conoscenza della lingua italiana che avrebbe dovuto indurlo alla ricerca di altri termini, sulla mancanza di conoscenza di quelle care, vecchie, buone maniere che erano alla base dell’educazione dei nostri genitori. Ufficiali sì, ma non sempre gentiluomini…
Fin quando alla sostanza si preferirà la forma, tanto nei teatri di guerra, quanto in tempi di pace nelle caserme, i nostri soldati e i nostri appartenenti alle Forze dell’Ordine continueranno a versare inutilmente il proprio sangue per chi percepisce uno stipendio per scaldare una poltrona o per discutere del movimento oscillatorio di un braccio durante una marcia, distribuendo “cazziatoni” a destra e a manca le cui conseguenze possono risultare inimmaginabili per soggetti che non brillano certo per intelligenza, sensibilità e attitudine al comando…
Non posso credere che un collega ufficiale (che grado?) dinanzi un fatto tanto triste, abbia opposto un rifiuto alla pubblicazione adducendolo a ragioni tanto insulse da mettere in evidenza soltanto l’ignoranza e la mancanza di sensibilità dell’autore sul quale non aggiungo altro. Dinanzi la morte si ha solo il dovere di tacere per rispetto a chi non c’è più. Se veramente si tratta di un collega, per di più un ufficiale, mi vergogno per lui. R.I.P. “Alpina” e che la terra ti sia lieve.