Le incontri e non le riconosci più. Le ricordi ancora come vestivano fino allo scorso anno, sai il colore dei loro capelli che adesso non vedi. Via i jeans, gli abiti occidentali, quel po’ di trucco che adoperavano. Adesso il massimo che si consentono è una linea di eyeliner nero e qualche camicetta colorata.
Una lunga gonna nera ha preso il posto dei jeans e i capelli sono rigorosamente coperti dal velo islamico. Stamattina ho visto una delle tante ragazze che solo pochi mesi fa non avresti distinto da una delle tante giovani della nostra città. Indossava un pantalone largo di colore verde muschio, così come dello stesso colore era la larga camiciola e l’hijab che le copriva la testa e il collo.
Qualcuna di loro è già passata a indossare lo chador.
Libertà? Moda? Se provate a far chiedere loro perché hanno indossato il velo, risponderanno che sono musulmane e il velo fa parte integrante della loro fede e che nessuno le obbliga a portarlo. Per la seconda domanda, che sorgerebbe spontanea, non c’è tempo, hanno già girato le spalle alla loro interlocutrice (con gli uomini non parlano, all’infuori che con quelli della loro famiglia) e si sono allontanate, a passo svelto, quasi come avessero paura di essere viste da qualcuno.
Non saprete quindi perché donne che vivono da anni nelle nostre città, qualcuna anche da oltre dieci o quindici anni, improvvisamente sentano la necessità di indossare tuniche e maglie a manica lunga, su gonne che le coprono fino ai piedi.
Se è pur vero che ci sono donne musulmane che indossano il velo per motivi religiosi, che altre lo fanno liberamente per rivendicare aspetti identitari e culturali, non si può sottovalutare il rischio dell’imposizione. La cronaca più volte ha riportato episodi di questo genere. Nel mese di aprile 2017, la stampa riportava di come si fossero verificati tre casi di violenze contro donne per costringerle a indossare il velo islamico. Due a Bassano del Grappa, in Veneto, e un caso in provincia di Napoli.
Non mancano neppure i casi di italiani convertiti all’islam più radicale, che non esitano a ricorrere alle violenze fisiche nei confronti dei loro familiari. Il 31enne Yussuf, nell’ottobre del 2017, a Catania, venne arrestato a seguito delle accuse da parte della sua compagna che veniva spesso segregata in casa, picchiata e costretta a indossare il velo. Le violenze erano tali da aver causato lesioni gravissime alla donna che, stanca delle percosse e dell’essere costretta anche a dover visionare video che mostravano estremisti islamici nell’atto di uccidere prigionieri “infedeli”. Un fatto che avrebbe destato poco clamore se Yussuf, come si faceva chiamare l’uomo, fosse stato realmente un cittadino marocchino, così come si presentava. La vicenda la si poteva chiudere come uno dei tanti casi di musulmani radicalizzati. Il nome di Yussuf, in realtà, è Giuseppe D’Ignoti, cittadino italiano convertito che è stato arrestato a seguito delle gravissime accuse mossegli dalla compagna: sequestro di persona, violenza sessuale continuata, riduzione in schiavitù, maltrattamenti e lesioni personali.
La tanto declamata “libera scelta”, a volte proprio tale non è. E, talvolta, le conseguenze sono più gravi di quelle sopracitate. Non mancano infatti gli episodi di violenze tali da aver portato alla morte le vittime di una follia che non ha nulla a che spartire con i dettami religiosi che, artatamente, vengono manipolati da “cattivi maestri” per indottrinare all’islam più radicale e violento.
Ma non è questo l’aspetto più allarmante del fenomeno, o quantomeno non è quello relativo all’imposizione familiare. È sufficiente guardarsi intorno per comprendere come il diffondersi a macchia d’olio di segni d‘identificazione religioso-culturale, possa essere dovuto all’attività di indottrinatori che stanno radicalizzando i soggetti più deboli delle comunità di stranieri presenti sul nostro territorio. Non si spiega diversamente il cambiamento radicale di talune persone che solo pochi giorni prima vivevano secondo le abitudini del paese del quale erano ospiti e che improvvisamente mostrano segni inequivocabili di un cambiamento non certamente casuale.
L’azione esercitata dai “cattivi maestri”, si rivolge prevalentemente verso gli uomini che a loro volta imporranno al resto della famiglia i presunti dettami coranici che abili manipolatori hanno insegnato loro. Anche nelle nostre città non è difficile notare questi segnali. Uomini che improvvisamente smettono di fumare, coltivano la barba, non rivolgono la parola a donne, neppure a quelle della loro comunità, escluso quelle appartenenti alla famiglia. Segnali che purtroppo vengono trascurati per la scarsa conoscenza che si ha del fenomeno.
La perdita dei territori da parte dello Stato Islamico e del maggiore controllo in rete, ha costretto i fondamentalisti islamici – che avevano saputo sfruttare al massimo le moderne tecnologie e le nuove tecniche di comunicazione, trasformando l’organizzazione terroristica in una struttura capace di programmare un’attività politica che attrae sempre più giovani, affidandosi ad un network comunicativo pari a quello di partiti politici che mirano al governo di nazioni – a ritornare all’utilizzo di indottrinatori che operino fisicamente all’interno delle comunità, lasciando a internet il passaggio successivo della radicalizzazione con i predicatori di odio, favorendo così l’auto estremizzazione.
La propaganda jihadista in rete, rispetto un paio di anni fa, si è di gran lunga ridotta, così come l’uso di più lingue che ormai viene quasi limitato all’arabo e a quelle più conosciute. Difficile trovare un messaggio o un proclama in lingua italiana, cosa che prima avveniva con una certa frequenza. Inoltre, il timore di incappare in un infiltrato sta costringendo a effettuare il reclutamento tramite facilitatori che grazie al loro passato di ex combattenti, hanno contatti con gruppi jihadisti e possono garantire in merito al background dei nuovi adepti.
L’impressione che ne avrebbe un attento ed esperto osservatore è quella di un rilancio di Sharia4, un’organizzazione di matrice wahhabita che si pone come obiettivo quello della creazione di Stati Sharia in Occidente.
Infatti, il linguaggio violento di questi predicatori dell’odio non è diverso da quello del più becero terrorismo che ha caratterizzato organizzazioni come al-Qaeda e lo Stato Islamico. Passa dall’imposizione dell’hijab il rilancio di Sharia4?
Non rimane che sperare nel fatto che questi segnali non sfuggano a quanti preposti a combattere un fenomeno i cui molteplici aspetti non sarebbero facilmente decifrabili a un occhio inesperto…
Maurizio Franchina