Su “Inviato Speciale”, sulle frequenze di Rai Radio 1, è andato in onda stamattina il servizio di Rita Pedditzi sulla storia di Ettore Majorana, il genio della scienza, scomparso il 27 marzo 1938, all’età di 32 anni .
La storia di Majorana, fisico e accademico italiano, dal momento della sua scomparsa è sempre stato coperta da un fitto mistero, reso tale anche dalle tante ipotesi, spesso infondate e lasciate all’approssimazione di chi si è fatto e ha divulgato un’opinione senza approfondire alcuna ricerca.
Una vicenda mai risolta, sulla quale, grazie alle testimonianze inedite raccolte dalla giornalista, spuntano nuove ipotesi, alcune delle quali verrebbero suffragate da dati oggettivi che rendono assai credibile l’inchiesta giornalistica della Pedditzi.
La giornalista si è recata a Catania, dove ha visitato i luoghi dove è nato e cresciuto Ettore Majorana, raccogliendo le testimonianze del pronipote Marcello e del nipote Fabio, figlio di Luciano, del fratello del fisico scomparso.
Un’inchiesta che potrebbe svelare un mistero durato ottanta anni.
Dalle testimonianze raccolte, emerge come la famiglia di Ettore Majorana non abbia mai creduto all’ipotesi del suicidio dello scienziato. Anzi, tutt’altro. Tant’è che la madre di Ettore lasciò due diversi testamenti, dei quali uno riguardava proprio il figlio Ettore nell’ipotesi che lo stesso fosse tornato.
Fin qui, si potrebbe pensare al desiderio di una madre che non si rassegna all’idea della scomparsa del figlio e che in assenza di prove certe della sua morte, spera ancora che un giorno possa fare ritorno a casa.
Un’ipotesi messa in discussione dalle parole di Fabio Majorana, il quale ha sempre avuto il sospetto che il padre sapesse dove si trovasse il fratello, tant’è che dopo le iniziali ricerche durate un anno, decise di sospenderle e di evitare di parlare in casa di Ettore. Un comportamento analogo a quello tenuto dalla madre.
Ad alimentare i sospetti del nipote, il fatto che in più circostanze aveva sentito la nonna che credendosi sola borbottava: “ Ettore… Ettore… quando torni le prendi…”
Un’ipotesi che veniva avvalorata anche da un’altra frase che spesso udiva pronunciare in casa: “Questa cosa (la tua scelta –ndr) noi la rispettiamo, però sai che noi per te volevamo una vita diversa…”
Perché in famiglia – dove i due fratelli di Ettore Majorana, dopo un anno avrebbero improvvisamente deciso di sospendere le ricerche del congiunto – si parlava di una scelta da rispettare, seppur non condivisa?
Nel corso di tutti questi anni, il numero di speculazioni sulla fine dello scienziato, le inchieste, le testimonianze di chi giurava di averlo visto, si sono sprecate. Dai monti dell’Alaska, dove c’era chi affermava di averlo visto, al testimone che dichiarava come nel 1981 fosse a Roma con monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana, fino ad arrivare alla puntata di “Chi l’ha visto?” che lo indicava in Venezuela dove, tra il ’56 e il ’59, si sarebbe fatto chiamare signor Bini.
A seguito di questa ulteriore testimonianza, la procura di Roma riaprì le indagini sulla scomparsa di quello che Enrico Fermi considerava uno scienziato alla pari di Newton e i carabinieri, presentatisi alle pendici dell’Etna in casa di Fabio Majorana, cercarono nelle vecchie foto di famiglia le possibili somiglianze con il misterioso signor Bini.
Una nuova ipotesi che fece ridere Fabio, il quale, pur consegnando agli investigatori le fotografie, sostiene che non c’era nessun nesso tra il Bini e lo zio Ettore, tant’è che l’indagine si concluse in una bolla di sapone, con l’archiviazione da parte della procura che sostenne comunque che c’era una possibilità che fosse lui.
Una possibilità…
All’epoca della misteriosa scomparsa di Majorana, una delle ipotesi investigative, considerata l’educazione religiosa che aveva ricevuto il giovane scienziato, riguardava la possibilità che lo stesso, avendo intuito le drammatiche conseguenze che potevano derivare dalla scoperta della scissione dell’atomo, avesse deciso di ritirarsi a vita monastica.
La stessa famiglia, in passato, indirizzò le ricerche in tal senso.
Una seppur labile prima traccia, come ricostruito dalla Pedditzi grazie alle testimonianze del pronipote Marcello e di Fabio, la si era trovata quando dopo il rientro a Napoli dello scienziato, e la sua successiva scomparsa, alle richieste di informazioni poste al padre guardiano del convento dei Portici, questi rispose: “Perché cercate una persona che sta bene?”
Che fosse questo il senso delle lettere di Ettore, il quale scrisse ai familiari di non indossare il lutto, e nella seconda a Carelli, in cui dice che il mare lo aveva rifiutato ma che lui non voleva dedicarsi all’insegnamento? Non si può quindi escludere che Majorana avesse pure pensato al suicidio – magari proprio buttandosi in mare la sera del 27 marzo del 1938, dal traghetto con il quale era diretto a Palermo – ma che la fede e l’educazione ricevuta, lo avessero indotto ad un ripensamento.
Durante l’incontro della giornalista con i parenti più prossimi di Majorana, man mano che parlano, affiorano i ricordi, aneddoti sulla vita della famiglia, dello stesso Ettore che, come sentito da Fabio e Marcello in casa, da piccolo aveva preso un traghetto e il padre l’aveva portato in sala macchine. Lui calcolato il tragitto che il traghetto doveva fare e il carico di carburante, disse al padre che sarebbe stato insufficiente per compiere quel viaggio.
Un calcolo esatto, tanto che il padre informò il comandante della nave di quello che gli aveva appena riferito il figlio e questi, meravigliato, fatti i giusti calcoli ammise che effettivamente c’era stato un errore.
Affiorano anche ricordi di momenti tristi, come quando Fabio Majorana, racconta di quando da Roma arrivò la telefonata della zia Maria, la sorella di Ettore, dicendo che era morta nonna Dorina, la madre dello scienziato, e il papà, inginocchiatosi, disse: “Mammuzza adesso lo sai che fine ha fatto Ettore”. Una fine conosciuta dal fratello Luciano?
Ettore scomparve quattro anni dopo la morte del padre che, seppur lontano per lavoro, era molto presente umanamente, tanto che in famiglia si diceva che se fosse stato ancora in vita il figlio non sarebbe scomparso così. Dalle testimonianze, emerge anche la figura materna, quella che teneva le redini della famiglia, ma rispetto la quale Ettore era un piuttosto insofferente.
Non solo di aneddoti si parla, alla Pedditzi vengono infatti mostrate la firma di Majorana bambino nello studio del padre e quella incisa su un muro. Ma le viene anche rassegnato il dispiacere di chi ha letto i tanti scritti di quanti hanno fatto le ricostruzioni più assurde, senza neppure interpellare i familiari per cercare di capire cosa ne sia stato realmente dello scienziato.
Anche i fatti più banali e ai quali non sarebbe stato difficile trovare risposte, se solo le si fossero cercate, diventano così motivo di fantasiose elucubrazioni, a volte ai limiti dell’illazione. Come nel caso della cicatrice sulla mano di Majorana, per la quale si sono fatte tante ipotesi, alcune losche, mentre in realtà nasce un incidente stradale.
La madre, per fare studiare i figli, aveva preso loro una casa a Roma dove periodicamente si recava per andare trovarli.
Una domenica, quando erano tutti a Roma, decisero di andare a fare una gita ai Castelli. Quel giorno, di ritorno dalla gita, volle guidare Ettore il quale finì fuori strada e con la mano ruppe il vetro dell’auto, ferendosi. Il fratello Luciano, poiché Ettore non aveva neppure la patente, si assunse la responsabilità dell’incidente. Da allora Ettore, non guidò più la macchina.
Le ricostruzioni, forse le più veritiere e certamente le più verosimili, grazie all’aiuto delle testimonianze e agli aspetti documentali, oltre che della giornalista di Radio Rai 1, sono quelle che fece Leonardo Sciascia, il quale – anche lui a differenza di tanti altri – contattò la famiglia dello studioso.
Sciascia, arrivò alla conclusione che Ettore Majorana si era spontaneamente rinchiuso in un convento in Calabria. Un’ipotesi negata però dall’ordine dei monaci del convento.
Una conclusione non diversa da quella alla quale si arriva dalla testimonianza del Professor Zichichi – anche lui intervistato dalla Pedditzi – il quale racconta che in occasione della dedica del centro di Erice a Majorana, invitò alla cerimonia l’Arcivescovo di Trapani. Nel corso della presentazione, Monsignor Ricceri confidò a Zichichi di essere stato il confessore di Ettore e che questi era sparito a causa di una crisi mistica e non perché si fosse suicidato, aggiungendo che, secondo lui, lo scienziato si era rinchiuso in un convento.
Che fine ha fatto dunque Ettore Majorana?
L’inchiesta giornalistica della Pedditzi, offre spunti meritevoli di approfondimenti. Come ricostruito dalle testimonianze, la famiglia andò a cercarlo in Calabria ed è lì che probabilmente lo trovarono e rispettando le sue volontà non ne diedero notizia.
Tornati in seguito al convento, fu loro mostrata una tomba, nella quale gli fu detto che si diceva fosse sepolto colui che aveva sganciato la bomba atomica su Hiroshima, aggiungendo, che c’era anche la tomba del loro congiunto.
Un caso se nello stesso convento si racconta vi sia sepolto l’uomo che sgancio l’atomica e lo scienziato che la stava da scoprire?
Il 5 ottobre 1984, Papa Giovanni Paolo II, recatosi in visita alla Certosa, ebbe a dire: “Qui in questo convento giacciono i grandi”, indicando tra questi il fisico scomparso.
Se un merito hanno Sciascia e la Pedditzi nel ricostruire la storia del fisico italiano, è quello che anziché lasciarsi andare ad onanismi mentali compulsivi, come hanno fatto tanti altri, hanno scelto la via della ricerca, delle testimonianze e dei riscontri.
L’unica che realmente può aiutare a dissolvere un mistero durato ottanta anni.
Gian J. Morici