Due processi in corso in Sicilia sembrano poter dare l’immagine allarmante di due diversi fenomeni che hanno, nel corso degli ultimi anni, stravolto ed inquinato il concetto stesso di giustizia, oltre che, gravemente leso la credibilità di quelli cui tale funzione è affidata.
A Palermo è, dopo anni ed anni, in corso un processo grottesco, quello della “Trattativa Stato-Mafia”. Un condensato di assurde sovrapposizioni agli altri poteri dello Stato, metafora di una giustizia che si mette al di sopra della legge, della ragione e dello Stato stesso.
A Caltanissetta, invece, è in corso un processo in cui lo Stato, la legge, la moralità dei pubblici poteri cerca di cauterizzare la piaga della corruzione che si è insinuata proprio nella più delicata delle funzioni, quella della magistratura e della giustizia e nella parte di essa non solo fisicamente ma idealmente responsabile di atteggiamenti quale quello che emerge in quell’altro processo.
E’ il processo Saguto, per i gravissimi fatti di malaffare, di corruzione e di clientelismo nella gestione dei beni sequestrati e confiscati ai sospetti di essere mafiosi ed ai sospetti di essere sospettabili. Un abuso nella gestione di strumenti giudiziari che sono essi stessi espressione di un rovesciamento dei concetti basilari di diritto e di giustizia.
Troppo poco si parla e si cerca di approfondire il significato e la portata dei due processi. Ma se il primo, quello della c.d. “Trattativa” ha suscitato momenti di clamore ed ha indotto qualche mente meno assuefatta a subire i riflessi della sopraffazione e di conseguente critica a teorie e sistemi inconcepibili, il secondo sembra, questa volta, che i fatti oggetto di esso, siano considerati solo come un deprecabile esempio del livello, un tempo inimmaginabile, cui è giunta la corruzione.
L’amministrazione di beni ed aziende da parte dell’Autorità Giudiziaria, un tempo limitata alle procedure fallimentari, ha sempre rappresentato il tallone di Achille della correttezza e dell’onestà dell’apparato giudiziario. Se nei palazzi di giustizia si udiva qualche mormorio in ordine ad episodi di corruzione, di nepotismo, di rapporti poco chiari tra magistrati ed avvocati, ciò accadeva quasi sempre per il funzionamento delle Sezioni Fallimentari.
Ma nel caso Saguto non si è in presenza solo di un fenomeno di disonestà qualsiasi, benchè più vasto e radicato.
La corruzione nella gestione dei beni sequestrati, come impropriamente si dice, alla mafia, è qualcosa di più e di diverso. Proprio perché qualcosa di diverso e di opposto al concetto di giustizia è il sistema stesso di quei sequestri e di quelle confische, la cui sola possibilità mette in crisi l’economia di intere regioni e travolge ogni tradizionale garanzia e certezza del diritto.
Se è vero che una persona onesta rimane tale anche in mezzo al dilagare della corruzione (cosa che ha comunque dei limiti) è anche vero che il supporto morale della imparzialità ed incorruttibilità del giudice non può essere tale e quale quando gli si richiede non di far giusta applicazione di leggi giuste, ma di “lottare” strenuamente contro “il male”, contro questo o quel fenomeno facendolo autore delle stesse norme cui deve obbedire attraverso una sgangherata discrezionalità ed una malcelata riduzione alla simulazione di ogni limite e condizione per l’esercizio delle sue funzioni.
La giustizia delle emergenze, la pretesa “superiorità” della “lotta” rispetto alla giustizia, portano a questo.
Dire che con quei due processi siciliani così diversi e così complementari tra loro siamo giunti al fondo del baratro è purtroppo un’affermazione ottimistica.
Un po’ di ottimismo potrebbe esserci consentito se su di essi si cominciasse a ragionare, a cercare verità e motivi, senza cedere alle convenzioni e senza timori di sfidare il fanatismo.
Fanatismo di fanatici. Ed anche di mascalzoni.
Mauro Mellini