Il dibattimento è stato dichiarato chiuso. A primavera, a quel che si dice, potrà aversi la sentenza.
Pronostici, compreso quello relativo alla effettiva conclusione, sono in un processo (termine da usare in mancanza di uno più appropriato) è sempre problematico farne.
Ma intanto, anche senza disporre di dati più precisi qualche valutazione statistica è possibile (mi auguro vorrà farne qualche analista meglio organizzato di me, come Bordin).
Più di quattro anni di dibattimento. Problemi costituzionali (sentenza della Consulta sul conflitto di attribuzione per la questione delle famose intercettazioni telefoniche del Quirinale). Morti alcuni degli imputati. Fiumi di inchiostro ed ore di audience in televisione, centinaia (a dir poco) di testimoni, santificazione di qualche gaglioffo imputato elevato al rango di storiografo di un decennio di vita politica italiana. Santificazione, con contorno di beatificazioni varie, di un P.M. “promosso” con l’unico titolo (altri glie ne sono attribuiti ma più esplicitamente negativi) alla Direzione Nazionale Antimafia ma rimasto a casa sua ed al Palazzo di Giustizia di Palermo in “trasferta”, movimento di scorte, di superscorte, di macchine blindate. Giudici Popolari sottratti per anni al loro lavoro, alle loro famiglie. Libri contenenti le dichiarazioni (si fa per dire) espresse attraverso una balbuzie mentale di un balordo “superpentito”, divenuto un’icona venerata dalla tifoseria antimafia e dall’Ingegnere fratello.
Se avremo a primavera la sentenza (Mussolini nel 1940-41 annunziò “a primavera viene il bello” e subito se ne fece una canzone guerriera delle camicie nere) dovremo poi aspettare che i magistrati stendano la motivazione, che, diamolo per scontato, sarà “monumentale”, cioè enorme “for de misura” come si dice a Roma e richiederà mesi e mesi, se non anni (è capitato più volte) di fatiche dattilografiche dei magistrati togati. Migliaia e diecine di migliaia di pagine
Non riesco a fare altra sintesi che quella cara a Totò: “E io pago! …Noi paghiamo! Pantalone paga!”.
La Giustizia ha i suoi costi, si dirà. Ma, ora, quale che ne sia l’esito una cosa è certa: quel processo, la sentenza che sarà emessa, il tempo, il lavoro, le polemiche, i soldi scialacquati, non sono serviti e non serviranno a niente. A meno che niente.
Niente di positivo, perché danni quel processo era destinato, sin dal suo nascere, a farne (ed a coprirne, che è pressochè la stessa cosa).
Si tratta di fatti (veri o immaginari) di circa venticinque anni fa, con imputazioni posticce, comunque tali da lasciar prevedere che nella migliore (si fa per dire) delle ipotesi, a parte le morti che interverrebbero prima dell’eventuale passaggio in giudicato, le condanne sarebbero comunque cancellate dalla prescrizione.
Si dirà che un’“esigenza di verità” imponeva ed impone che un simile processo si faccia. Già: è la solita pretesa della giustizia del Partito dei Magistrati di invadere anche il campo della storiografia e persino dell’archeologia. Per farne un grottesco strumento politico.
Per ottenere, con i suoi metodi pentitocratici e sbirreschi, con le sue logiche “di lotta” verità non dissimili da quelle ottenute dai processi della Santa Inquisizione, che di verità ha lasciato solo quelle delle sue nefandezze.
Se c’è chi ritiene che la sentenza della Corte d’Assise di Palermo farà giustizia delle stravaganze giuridiche e delle fantasie storiografiche che hanno caratterizzato quel processo, si illude. Il processo stesso, i capi d’accusa, la conduzione del dibattimento e, quindi, oltre ai P.M., più o meno vincolati alla finalità ed all’origine politica di questo “caso”, i giudici (quelli popolari probabilmente estenuati dal carosello di stranezze scatenatosi per anni attorno a loro) sono ormai tutt’uno con quella devianza della giustizia di cui il “processo della trattativa” è si può dire, simbolo, come di esso è simbolo (non sono io a proclamarlo ma la tifoseria palermitana”) il “cittadino delle cento città”, Nino Di Matteo.
Certo, se non altro per il residuato di un passato e di una logica che voleva fosse la sentenza, il “redde rationem” di pur complicati ed incerti processi, anche la “scheggia impazzita” del Partito dei Magistrati di Palermo, le loro tifoserie ed il loro “organo ufficioso”, mostrano qualche nervosa preoccupazione. Cercano di cambiare le carte in tavola (ma che tavola!) sull’impatto mediatico, arrivando persino a cercare di “superare” quella denominazione in sé aggressivamente fuorviante da ogni compostezza giuridica, di “trattativa”, che pure hanno usato ed usano da anni. Pare che ora preferirebbero sentir parlare di “consapevoli mediatori” (come se esistessero mediatori “inconsapevoli”) a proposito del “contributo alla realizzazione della minaccia” (cioè della bomba e delle stragi?) dei politici imputati di concorso. Magari nella minaccia rivolta a sé stessi.
Ma non è di ciò che oggi e qui vogliamo parlare. Credo che lo faremo ben presto.
Quello che è oramai una certezza, sulla quale ben poco avrà da incidere la sentenza, è che il “processo per la trattativa”, malgrado il carattere tutto Siciliano e l’impegno prevalente della magistratura palermitana, non certo contrastata, però, dall’intera Corporazione e dal Partito che ne è espressione, è l’episodio saliente della degenerazione politica, e non solo, dalla giustizia italiana, dello squilibrio dei Poteri e dell’aggressione programmata ed insolente dell’assetto fondamentale delle istituzioni e della loro armonica convivenza.
Troppo poco e troppo superficialmente se ne è scritto e troppo poco pare che chi ne avrebbe il dovere se ne preoccupi.
Noi, che tale dovere abbiamo solo nei limiti in cui esso incombe ad ogni cittadino, ce ne occupiamo a cagione della consapevolezza della realtà e della gravità dei pericoli che tutti corriamo. Possibile che tanti altri possano crogiolarsi in una colpevole inconsapevolezza?
Mauro Mellini