di Michele Rallo
Quello della Catalogna è un film già visto. Una minoranza “furba” che pensa di impossessarsi di un’intera regione, di renderla indipendente, di diventarne padrona assoluta, e forse anche di giovarsi delle sue ricchezze.
Parlo, naturalmente, di “regioni storiche”, che magari prima dell’unità nazionale siano state indipendenti, e che abbiano un patrimonio culturale (storia, etnìa, tradizioni, costumi, lingua-dialetto, eccetera) che la differenzino più o meno marcatamente dalle regioni circonvicine.
Secondo presupposto indispensabile per una “operazione secessione” è la ricchezza del territorio che si voglia separare dal contesto nazionale. Non in senso assoluto, ma anche soltanto relativo. Basta, per esempio, che una regione produca più delle altre, perché i mestatori possano arringare la popolazione al grido di “perché dobbiamo dare i nostri soldi per mantenere gli altri?”. Fattore che fa sempre presa sulla parte meno acculturata della popolazione, che magari non capisce che sono proprio le regioni meno produttive a consumare i beni prodotti dalla regione più ricca, formando un mercato “dei poveri” senza il quale la produzione “dei ricchi” non troverebbe sbocchi adeguati.
Le due cose insieme – il richiamo alle tradizioni e l’appello all’egoismo – se abilmente mescolate, possono produrre l’effetto di mobilitare una parte più o meno consistente di una popolazione regionale.
È ciò che è avvenuto in Catalogna, dove una cupola di deputati regionali ha deciso di tentare il tutto per tutto ed ha addirittura indetto un referendum per sancire l’indipendenza (non l’autonomia, che già avevano) dalla Spagna. Come mai un referendum, dal momento che tutti sanno che la maggioranza dei catalani vuole rimanere in Spagna? Non saprei cosa rispondere. Evidentemente, gli organizzatori pensavano di avere gli strumenti perché alla fine venisse fuori un risultato a loro favorevole.
La reazione decisa del Re e del Governo spagnolo (una volta tanto qualcuno si ricorda del dovere di difendere gli interessi nazionali!) hanno fatto abortire il progetto, che però ha già procurato danni consistenti all’economia catalana. Restano i soliti tapini (in Spagna e fuori) che si stracciano le vesti per la “violenza” della Guardia Civil (quanto sono cattivi i poliziotti di tutta Europa e quanto sono poveri e indifesi gli agitatori e gli sfasciacarrozze!) e che invocano il “dialogo” tra le parti: “hablamos”, cioè parliamo, ragioniamo, vedrete che una soluzione di compromesso alla fine si troverà. Come se fosse possibile trovare una via di mezzo fra la difesa dell’unità nazionale e l’alto tradimento. Già, perché operare per ottenere la secessione di una parte dalla nazione è alto tradimento. Si può anche – per non inasprire gli animi – non arrestare (ancòra) il signor Puidgemont e i suoi collaboratori della Generalitat, ma non si può certo negoziare con lui una via di mezzo fra l’unità nazionale e la dissoluzione nazionale.
Naturalmente, non vale neanche la pena di precisare che il referendum sovversivo di Barcellona non ha alcun punto ci contatto con i referendum consultivi promossi dalle regioni italiane di Lombardia e Veneto. Questi referendum sono del tutto legali e “costituzionali”, ancorché assolutamente inutili. Sono infatti dei referendum “consultivi”, quindi per consultare i cittadini lombardi e veneti e per sentirsi rispondere quello che tutti sanno: e cioè che anche loro vorrebbero una autonomia speciale, come quella della Sicilia. Dopo di che, siccome sull’argomento sono competenti gli organi nazionali, resterebbe soltanto una bella boccata d’aria fritta. Il mio modestissimo parere è che il tutto si esaurisca in un sabotaggio del progetto politico di Salvini, ricacciandolo in un ridotto nordista ed evitando che possa crescere ancora al sud.
Ma torniamo alla Catalogna. L’aspetto grave di tutta la vicenda non è certo il riaccendersi di pulsioni separatiste di una pur rumorosa minoranza, ma il momento in cui tutto questo avviene. Nel momento – cioè – di un attacco concentrico, violentissimo, dotato di risorse miliardarie, contro gli Stati Nazionali. Stati Nazionali che i poteri fortissimi dell’alta finanza internazionale vorrebbero svuotare, esautorare, privare della loro individualità etnico-etica e, alla fine, cancellare; per creare al loro posto una marmellata “multiculturale” che possa essere facilmente dominata e sfruttata. Tutto muove in questa direzione: la perdita di sovranità in favore di organismi internazionali, l’invasione migratoria, la globalizzazione economica, la fine delle tutele sociali, la nascita di una neo-religione “buonista”, la diffusione di idiozie colossali, quali la teoria Gender e lo Ius Soli.
Orbene, è in questo contesto che – in sedi ben diverse da Barcellona – è probabilmente maturato il progetto di utilizzare la Catalogna per recare un colpo mortale allo Stato Nazionale spagnolo. E, se avesse funzionato in Spagna, state sicuri che il progetto sarebbe stato rapidamente esportato in tutta Europa: in Inghilterra (Scozia), in Francia (chessò, la Bretagna), in Belgio (Fiandra), e certamente anche qui da noi.
È la stessa operazione – fateci caso – che da alcuni anni è in atto nel Medio Oriente, grazie alle “primavere arabe” finanziate da certi strani filantropi (gli stessi che finanziano le ONG che svolgono il servizio taxi dalla Libia). Una operazione che vuole frantumare i grandi paesi arabi, mutilandoli di una parte dei loro territori nazionali. La Libia è di fatto già divisa fra Cirenaica e Tripolitania, l’Irak è spaccato in tre (i curdi a Mossul, i sunniti a Baghdad, gli sciiti a Bassora), la Siria è fin’ora riuscita a difendersi grazie ai russi, ma è fatale che debba comunque rinunziare alle sue regioni settentrionali, mentre si avvicina l’ora del Libano.
Perché tutto questo? Perché gli Stati Nazionali sono un boccone troppo grosso da buttare giù, anche per gole profonde come quelle degli strozzini internazionali. La Libia e la Siria, come la Spagna, la Francia o l’Italia possono trovare in sé le forze e le energie per resistere all’accerchiamento. Il Kurdistan ex-irakeno o ex-siriano – invece – o la Catalogna, o la tal nobile regione di auguste origini, sarebbero preda facile, facilissima per certi astuti marpioni dal miliardo facile.
Chissà perché ho pensato proprio a questo, quando ho appreso che alcuni organismi separatisti catalani si sarebbero giovati anche dei finanziamenti di George Soros, il filantropo specializzato in “rivoluzioni colorate”. Attenzione, si tratta di briciole, non di finanziamenti maiuscoli come quelli – poniamo – profusi in Ukraina. D’altro canto, un referendum sostenuto da tutta la destra economica catalana non aveva certo bisogno di finanziamenti esterni. E, tuttavia, anche quelle briciole testimoniano una simpatia e una vicinanza perlomeno sospette.
George Soros – si ricorderà – è quello stesso filantropo che, quando le inchieste della magistratura italiana avevano iniziato a far luce sui comportamenti delle ONG nel Mediterraneo, si è precipitato a Roma per incontrare il nostro premier Paolo Gentiloni. Che cosa i due si siano detti, è rimasto un mistero.
Così come un mistero restano i motivi reali di un referendum-farsa per una indipendenza che i catalani non vogliono.