Nel marzo dello scorso anno il dott. Antonino Di Matteo, nato etc. etc. res. etc., rappresentato e difeso dalle Avv.sse etc., fece pervenire una istanza di mediazione obbligatoria, oggi prevista per poter agire in giudizio per certe cause civili, a me e ad Arturo Diaconale convocandoci avanti una di queste “agenzie di mediazione” di Caltanissetta esponendo che era “insorta controversia (!??) tra gli stessi (io ed Arturo) e sé medesimo, sì che, intendeva esercitare azione civile per ottenere il risarcimento di tutti i danni subìti (????) in conseguenza della pubblicazione sulla testata on line del quotidiano “L’Opinione” del 9.12.2015 dell’articolo dal titolo: “La trappola eversiva di Di Matteo e C. a firma del giornalista (!?!?) Mauro Mellini. Nell’intera composizione (sic) dell’articolo, per gli sprezzanti toni adottati e per le specifiche gratuite espressioni utilizzate, si configura una condotta diffamatoria e calunniosa in danno del dott. Di Matteo con grave lesione della sua reputazione e dignità, sia sul piano personale sia su quello professionale”.
Insomma, tutto il contrario del conferimento di un’altra “cittadinanza onoraria” ed, anzi, con pericolo che da tale condotta ne derivasse, magari, il mancato conferimento o addirittura la revoca di qualcun’altra di quelle già allora molto numerose onorificenze.
Arturo Diaconale aveva ripreso dalla mia pagina fb quel mio articolo. Io mi feci qualche risata a sentirmi definire “giornalista” (col rischio, però che qualche collega del “Magistrato più scortato d’Italia”, mi sottoponesse ad indagini per “abuso di titolo professionale”). Avevo in effetti pubblicato un articolo nel quale, a fronte di perentorie ingiunzioni che da parte della tifoseria del sullodato dottore (ai magistrati non si può omettere di attribuire il loro titolo accademico) si indirizzavano a destra ed a manca ed in particolare al Presidente della Repubblica, di “rendere omaggio” a Di Matteo, “condannato a morte da Totò Riina”, con la conseguenza (la trappola) che, una volta venuta poi alla luce l’assai probabile inesistenza di quella condanna a morte emessa, alla portata dell’orecchio di qualche guardia carceraria, per essere il suddetto Di Matteo (dott.) “andato troppo oltre” (espressione dai molti possibili ed impossibili significati) il Presidente della Repubblica avrebbe finito col fare la figura del baccalà. Effetto decisamente eversivo.
Detto tutto questo l’istanza del suscettibile magistrato precisava essere il “valore della controversia” di euro 250.000 (duecentocinquantamila) che Arturo ed io avremmo dovuto versargli sull’unghia a ristoro del pericolo per le sue cittadinanze onorarie conseguite e da conseguire.
Andò a Caltanissetta a rappresentarmi la carissima e bravissima Collega Rosa Salvago di Agrigento, con l’intesa che, quale unica nostra proposta, vi sarebbe stata quella che il dott. Di Matteo si dissociasse apertamente da quelle eversive ingiunzioni al Capo dello Stato. Ma l’avvocatessa sorella-difensore del Magistrato più scortato e più “concittadinizzato d’Italia”, dichiarò subito, inviperita, che pensassimo solo a versare i 250.000 euro. Amen.
E’ passato oltre un anno, ma a questa perentoria ingiunzione non ha fatto seguito l’introduzione del minacciato giudizio civile. Così la “mediazione obbligatoria” ha perso efficacia e ho persino cessato di domandarmi se il dottor Di Matteo (ed anche l’inflessibile sorella) se ne fossero semplicemente dimenticati, troppo presi dal gran da farsi a fronte della valanga di conferimenti di cittadinanze onorarie, o se, magari, qualche dubbio sull’opportunità di imbarcarsi in quel giudizio li avesse toccati, se non altro, per la prospettiva di doverlo concludere in contraddittorio con i miei eredi o per la sopravvenuta scoperta di un certo loro errore sulla competenza per territorio (Caltanissetta sarebbe stata il locus communis delicti non della pretesa diffamazione, ma, semmai, della “ecceptio veritatis”.
Questa vicenda semigiudiziaria e della mia attività di “giornalista” (abusiva, lo confesso!) mi è tornata alla mente leggendo delle dichiarazioni di Fiammetta Borsellino sulle qualità dei magistrati che hanno trattato la vicenda dell’assassinio del Padre, combinandone delle grosse “per colpa, oppure per dolo, o per incapacità professionale”, anch’essa, quindi esplicita (ed, anzi, assai di più di me) in giudizi opposti a quelli del conferimento delle cittadinanze onorarie.
Se il dott. Di Matteo e l’inflessibile avvocatessa sorella avessero mandato ad effetto la minaccia di quell’azione giudiziaria per i 250.000 euro (e non fossimo stati a discutere di questioni preliminari etc. etc.) credo che la mia brava e diligente patrona Rosa Salvago non avrebbe, oggi, mancato di includere Fiammetta Borsellino nella lista dei nostri testimoni “a discarico”.
Per chi fosse poco addentro in queste pasticciate cose di giustizia e si domandasse che c’entra Fiammetta Borsellino con i duecentocinquantamila euro che voleva Di Matteo, farò dunque qualche spiegazione. Non è che avrei voluto che la giovane Figlia di una icona dell’Antimafia (ed icona essa stessa) venisse a dire, cosa che avrebbe fatto senza difficoltà, che quei 250.000 euro Di Matteo proprio non li meritava, meno ancora delle cittadinanze onorarie.
Ma è certo che, alla luce della testimonianza della suddetta e dei documenti che ha promesso di esibire, col suo tagliente giudizio sulle “deviazioni” commesse da Di Matteo (uno dei magistrati che a Caltanissetta aveva sostenuto la colpevolezza dei presunti assassini riconosciuti innocenti) e ciò per “colpa, dolo o incapacità”, la frase attribuita a Totò Riina a “motivazione” della sua conclamata “condanna a morte” cui è legata la carriera, il ruolo professionale e, magari, politico (secondo le ultime dichiarazioni!!) cioè: “Di Matteo è andato troppo oltre” diventa palesemente assurda, se non se ne inverta addirittura il significato, ritenendo Riina capace di un perfido senso dell’ironia.
E la “trappola eversiva” dello sbraitare della tifoseria con le sue intimazioni al Presidente della Repubblica di andare a rendere omaggio a Di Matteo come al Milite Ignoto, non è oggi, sempre secondo le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino, ed anche indipendentemente dalla giustezza dei suoi giudizi su Di Matteo e gli altri colleghi del Padre, non più nascosta, ma evidente.
Pensate un po’: Se il Presidente della Repubblica avesse voluto sottostare a quelle minacciose ingiunzioni ed avesse voluto dare il suo suggello all’apoteosi civile (e politica) del supposto “condannato a morte” (da parte del beneficiario di quella sua topica professionale!) le dichiarazioni di questa Ragazza senza peli sulla lingua lo avrebbero esposto alla derisione ed al dileggio non ingiustificato dei Cittadini Italiani. Proprio quello che un Capo dello Stato non può permettersi.
Di Matteo cerca di minimizzare la botta che gli ha inferto Fiammetta, dicendo di comprendere il disorientamento dei famigliari, poverini, delle vittime, ma afferma che ora non c’è da discutere degli errori del passato, ma piuttosto, da individuare le responsabilità ulteriori, quelle della “trattativa”.
Comodo! Come dire non guardiamo alle cavolate del passato, pensiamo a farne altre.
Rilevante, quindi quella testimonianza nel giudizio per i 250.000 euro. Un giudizio, però che non c’è stato e forse non ci sarà mai.
Un po’ come la condanna a morte pronunziata da Riina. Al giudizio per quei pochi spiccioli posso pensare compiacendomene e godendone nell’immaginarmi il suo reale accadimento.
Non sarà come una cittadinanza onoraria, ma per un “giornalista abusivo” è già abbastanza.
Mauro Mellini