Nei giorni scorsi, parlando con alcuni amici, ho avuto modo di prendere atto di una sensazione, che anche per altri versi so essere diffusa, di una certa meraviglia, anticipatrice di un qualche ottimismo, per le ripetute manifestazioni di dissenso e di preoccupazione che si rilevano in seno alla Magistratura, per quel che riguarda lo “scendere in campo elettorale”, l’affrontare direttamente la competizione politica da parte di taluni dei suoi componenti, fenomeno, a quanto pare, destinato a crescere, e, soprattutto per la possibilità, che conservano questi loro colleghi, sia in caso di insuccesso, sia a compimento del mandato politico-istituzionale conseguito, di tornare a svolgere funzioni giudiziarie.
Io non credo affatto che questi atteggiamenti critici siano un sintomo di resipiscenza contro la politicizzazione della giustizia e la sua espressione più singolare, pericolosa ed eversiva che è l’esistenza, oramai indiscutibile, di un Partito dei Magistrati. Credo, invece, che tali riserve siano dettate proprio dalla coerenza con la concezione della magistratura come partito politico e come, allarme per quella che, in fondo, è una “devianza” dalla funzione strategica che è propria della magistratura-partito.
La natura abnorme e intrinsecamente eversiva in un normale ordinamento democratico e costituzionale, del Partito dei Magistrati è rappresentata proprio dalla concezione di un ruolo politico generale, condizionatore e padrone delle altre funzioni ed istituzioni dello Stato conquistato dalla magistratura come corpo e, dalla stessa funzione giudiziaria (ricordate “l’uso alternativo della Giustizia, caro a M.D. che di tale devianza è stata la matrice).
Rispetto a tale fenomeno ed a tale aspirazione, la “scesa in campo elettorale” di alcuni magistrati può eventualmente rappresentare un espediente tattico o strategico di cui il partito-istituzione può avvalersi, addirittura promuovendolo in certi casi. Ma in sé è “altro”, rispetto alla militanza “ortodossa” nel partito. Ed alla sua abnorme e pericolosa esistenza.
Le battaglie, purtroppo vincenti, del Partito dei Magistrati, non sono quelle di singole appartenenti alla categoria, passati o no agli scranni parlamentari. Né sono le vittorie degli appartenenti, magari formalmente non iscritti a taluni partiti, i successi rappresentati dallo sterminio della classe politica della Prima Repubblica ed il disarcionamento del Cavaliere con la frantumazione del Centrodestra. Sono successi, vittorie del partito-istituzione. Due esempi di “eversione all’italiana” che andrebbero analizzati e studiati anche comparativamente, ad esempio, all’altro, assai meno tipico e più complesso, del colpo di Stato militare per interposta persona che ci portò il fascismo.
Berlusconi fu vittima di un suo madornale errore quando, di fronte alle tempeste giudiziarie che si scatenarono sul suo capo, continuò a sostenere di essere vittima di una sorta di un complotto di “alcuni P.M. comunisti”. O non aveva capito nulla o aveva paura di far capire che aveva capito. Era destinato a perdere.
Detto ciò il fatto che, a seguito della dispersione e distruzione dei partiti e della evanescenza crescente della loro entità e funzione, sembri crescente la fregola di alcuni esponenti della magistratura di insediarsi nelle legittime e maltrattate istituzioni politiche scendendo sul terreno delle competizioni elettorali, schierandosi con qualche (residuato di) partito o, magari, alla testa di qualche nuova formazione, non può considerarsi l’inizio di una nuova fase, quella dell’occupazione diretta del potere legislativo ed esecutivo (politici) da parte del Partito dei Magistrati. E ciò anche se molti di quelli che così si comportano credono sia oramai il momento di prendere quella strada. Ma non può neppure considerarsi resipiscenza, ma diverso giudizio sui tempi e sulle modalità del golpe, la riserva dei magistrati sulle candidature di loro colleghi.
Il Partito dei Magistrati attraversa, ed è naturale, un momento di disorientamento a seguito delle sue vittorie e della mancanza di un “nemico da abbattere”, punto di riferimento insostituibile in molte situazioni e per molte entità e correnti politiche.
Ma l’occupazione diretta del potere, la sostituzione dei “nemici istituzionali”, partiti, governi, uomini politici, come entità create, si può oramai dire, dalla stessa azione deviata della giustizia, la generalizzazione, come “nemico” da battere a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo e, quindi con l’invenzione dei “poteri occulti”, delle massomafie”, e la stessa entità fluida e multiforme di una mafia meta-criminale etc. sono per il partito nella sua più massiccia maggioranza, più che prematuri, pericolosi per l’essenziale condizione dell’esistenza e di ogni funzione e potere del partito: quella di non far notare o, almeno, di profittare della stolta volontà altrui di non notare, l’esistenza di esso, la sua azione, il suo peso.
Ingroia, Di Matteo, Scarpinato, De Magistris, rappresentano una grossa preoccupazione per gli “ortodossi” del P.d.M. anche se molti suoi esponenti, sceglierebbero volentieri, se ne avessero possibilità e sicurezza di successo, di prendere quella strada.
Mi dicono che la “scheggia impazzita” (come io la chiamo), che però non è solo una scheggia palermitana, sia, con le sue stravaganze, i suoi riti e miti e le sue iniziative balorde e petulanti, una grossa preoccupazione per i “moderati” (ahi! ahi!) del P.d.M. I quali, però non osano far trapelare all’esterno questa loro ostilità e queste loro preoccupazioni che, se avvertite dal grande pubblico, comporterebbero un’attenzione pericolosa anche per l’esistenza dello stesso partito della magistratura. Che, guarda caso, è la vera “forza occulta” della politica italiana. Forza che è tale perché è occulta e finché sarà occulta. Starei per dire che c’è da sperare in Di Matteo.
Mauro Mellini