Avevo scritto questo racconto breve per un concorso, poi avrei dovuto limarlo per partecipare e invece mi piaceva così. Ne scriverò un altro.

Avevo giurato che non ci sarei più tornato, e invece eccomi qua.
Guardo la fontana, con gli scalini pieni di ragazzi accaldati dall’afa di una bella giornata di fine giugno e dalla birra, e mi stupisco di dove mi hanno portato le mie gambe.
Ho una busta in una mano e la borsa nell’altra, e ruoto su me stesso aprendo le braccia come una ballerina per guardare questo universo che avevo quasi dimenticato.
Sbircio il Tevere oltre il parapetto, poi mi giro di nuovo e abbasso gli occhi per guardare il selciato e i miei piedi, come per rendermi conto di essere di nuovo qui, davvero.
Chiudo gli occhi, sperando che il buio cancelli l’immagine che si sta formando nella mia mente, ma è inutile, è tutto inutile.
Lei è ancora lì, che ride nel suo vestito verde, seduta sugli scalini di Piazza Trilussa, e io vicino che abbasso la testa e tengo le braccia appoggiate sul marmo, per paura di toccarla, ma sento il suo calore e il suo respiro, e le braccia si irrigidiscono per il desiderio di tenerla stretta, eppure resisto e continuo a parlare, e sono divertente, perché lei ride, mi prende in giro, è contenta di essere qui con me.
Poi le do’ un foglio.
Lei si fa seria, lo apre e comincia a leggere.
Riapro gli occhi, non voglio vedere: anche se questa scena è solo nella mia mente, non voglio vederla. Giro sui tacchi e attraverso la strada di corsa e vado sul ponte.
Mi affaccio e guardo giù.
Quante volte ci ho pensato, quante volte.
Ma sono troppo vigliacco, ho preferito scappare.
Londra, poi Bangkok, poi addirittura l’Australia.
Lontano, il più lontano possibile da Roma, da questa città che amo e che mi ha fatto così male, da questo caldo opprimente e lo smog che mi fa tossire.
Lontano dal dolore lancinante che mi provoca il ricordo, un ricordo che sulle onde dell’oceano è più delicato, una malinconia di sottofondo, mitigato dai corpi di donne alte e muscolose, con capelli biondi e occhi azzurri impossibili.
E così ho resistito per dieci anni e sono riuscito a vivere.
Oggi però no, oggi non vivo, perché sono di nuovo qua, e il dolore è di nuovo una spada arroventata infilata nel costato, e una mano impietosa che la gira in continuazione, non è possibile sopportarlo.
E allora guardo di nuovo giù: ora che anche i miei non ci sono più lasciarsi cadere è un dolce desiderio.
Ma prima voglio vederla di nuovo.
Rialzo la testa, guardo in direzione di Piazza Trilussa e attraverso di nuovo, e come in un film, un brutto film di fantasmi, lei è lì, con il mio foglio in mano, gli occhi che si allargano mentre procede nella lettura, io che abbraccio le mie gambe e metto la testa tra le ginocchia come un adolescente, lei che finalmente finisce e mi guarda stupita, con la bocca aperta, non dice una parola.
Poi con lenta consapevolezza si alza, mi toglie gentilmente le mani dalle ginocchia, chiude la bocca e addolcisce lo sguardo, si siede sulle mie gambe e mi abbraccia senza dire una parola.
E’ la prima volta che la tocco, e non avevo idea. Nessuna idea che quel contatto avrebbe cambiato la mia vita.
Resto fermo così, con le mia mani sulla sua schiena, sento il suo cuore, il suo seno, il suo respiro, e non ho coraggio di dire nulla.
Devo riaprire gli occhi ora, lo devo fare. So che se li terrò chiusi scenderanno delle lacrime e io non voglio piangere.
Ma non riesco, non riesco proprio a riaprirli.
Sento la busta di plastica nella mia mano, e ne percepisco la leggerezza.
Ma so che anche se non pesa nulla mi farà male.
Apro gli occhi e guardo questa busta, e mi odio per questo, mi odio per averle comprato dei fiori.
Lei non amava i fiori e non li voleva, e l’unica cosa che ho saputo fare per lei è comprare dei fiori e venire qua a piangere.
Mi avvio verso il parapetto, guardo in lontananza il Cupolone, e Castel Sant’Angelo.
Penso che è stato bello nascere qua.
Mi hai fatto male, Roma. Ma non te ne voglio, mi hai dato lei, e ti ringrazio per questo, anche se poi me l’hai tolta.
Getto i fiori sul marmo che c’è sotto.
Arrivo, penso, il tempo del dolore finisce qui.