COSI’ SI RENDE PIU’ “ACCOGLIENTE” LA MAFIA
Ho sottomano il bel libro di Simone Nastasi: “Cuffaro tutta un’altra storia”. Ho scritto una postfazione per questo volume disponendone di un malagevole manoscritto.
Lo leggo e lo rileggo nella buona veste editoriale che gli ha dato Bonfirraro. Con crescente spavento.
Spavento, perché questa è la reazione di fronte alla puntuale ed obiettiva sintesi delle centinaia e migliaia di pagine delle sentenze che hanno inflitto sette anni di carcere all’Uomo politico siciliano che da poco ha finito di scontarli.
C’è da dire subito che quando una sentenza di condanna raggiunge le dimensioni di un’enciclopedia c’è da preoccuparsi seriamente.
Per quanto un caso sia complicato la verità è semplice oppure è sospetta di non essere tale.
Da quando i maxiprocessi hanno fatto venir di moda la monumentalità delle sentenze, gloria e titoli di merito per chi le scrive (come se le baggianate non potendo essere, come sono per lo più, monumentali), si è finito col perder del tutto il significato dell’”evidenza” e ciò mentre, con una delle solite gherminelle per gabbare l’opinione pubblica, fu riformulato l’art. 533 c.p.p. che stabilisce che il giudice può condannare l’imputato “quando risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio”, secondo la formula in uso, nei paesi anglosassoni. Una formula “rivoluzionaria” di cui nessuno, ed in particolare i giudici, ha mostrato di tenere conto.
Se una sentenza, non per centinaia di imputati, ma anche per uno, due o tre, ha centinaia e addirittura migliaia di pagine di motivazioni, significa che i dubbi sono stati tantissimi ed è per ciò solo inverosimile che siano stati potuti risolvere tutti quanti senza la minima incertezza.
In quel processo a Cuffaro periti del tribunale hanno giurato che delle persone parlarono di Cuffaro, “certamente” (al di là di ogni ragionevole dubbio) alludendo al suo interessamento in pro di mafiosi. Di Cuffaro, perché nella registrazione si coglie un “a” ed un “o”, dunque (al di là di ogni ragionevole dubbio) “dovevano” parlare proprio di Cuffaro.
Anni di galera per avere rivelato segreti appresi a tavola, per una telefonata, per le “intenzioni”…etc. etc. Tutto al di là di ogni ragionevole dubbio.
C’è da spaventarsi. E’ il ritorno dell’Inquisizione, di Torquemada, del Cardinal Bellarmino. Processi per sottigliezze teologiche, discussi sul filo di una “giurisprudenza-teologia”. Per reati evanescenti.
La certezza del diritto non ha più diritto di cittadinanza nel nostro Paese. L’incertezza, la mera “probabilità” degli accertamenti (che fiumi di inchiostro non riescono a camuffare per certezza, tanto meno “al di là di ogni ragionevole dubbio”) fa lievitare l’approssimazione delle fattispecie di reato addebitati in certi processi. Prendete l’art. 416 bis c.p. (associazione di stampo mafioso)? Contorcimento verbale per alludere ad un fenomeno sociologico-criminale, non per individuare con certezza un tipo di comportamento addebitabile alla persona da punire. “Fattispecie penale apparente”, quella, cioè individuata e sanzionata come incostituzionale dalla sentenza redatta da Volterra sul reato di plagio, (603 c.p.) che cancellò dal codice.
Fattispecie penale apparente significa “diritto penale libero”, cioè ad arbitrio del giudice secondo il suo sentimento di giustizia. Teoria ufficiale della Germania Nazista. Quella contro cui coraggiosamente insorse Piero Calamandrei nella famosa Conferenza del 15.1.1940, definendola espressione di barbarie.
Dove è finita la chiarezza espressiva dei Codici Napoleonici, frutto del pensiero illuminista, esempio di tutta la codificazione europea? Tutta la “giustizia di lotta è una fuga dalla chiarezza e dalla predeterminazione del reato nella sua fattispecie ineludibile”.
Necessità di lotta, si dice. Ma c’è una considerazione che andrebbe fatta e posta, in questa discussione avanti a tutte le altre. Proprio perché questa incertezza del diritto, il diritto libero e la sua applicazione sgangherata, come l’alibi fatto di sproloqui retorici che motivano la mancanza di veri e chiari motivi, si traduce in un ulteriore incentivo a delinquere.
Chi delinque, come chi vuole comportarsi da persona per bene, non opera col codice penale alla mano per stabilire quale sia o non sia il limite di legalità da osservare o superare, così come il credente non opera col trattato di morale cristiana per sapere se rischia o no di far peccato. Ma è certo che nel sottofondo culturale e morale certe distinzioni sono capaci di influenzare e determinare certe scelte.
Quando il confine morale è incerto, quando il peccato dipende da una “interpetrazione” della dottrina religiosa, quando questo crea margine di incertezza nei quali ricercare la “probabilità” del lecito o dell’illecito, come negli insegnamenti dei “casuisti” gesuiti veniva riconosciuta la possibilità di sfuggire alla dannazione attenendosi ad una “opinione”, purché “probabile” del lecito (lo rilevava impietosamente Pascal nelle “Lettere Provinciali”) il confine tra lecito ed illecito diventa evanescente ed “incustodito”. La teoria dell’opinione probabile era elaborata per poter tranquillizzare le coscienze dei re, dei principi, dei potenti e accaparrarseli dai Padri Gesuiti come confessori.
Chi è tentato dai vantaggi del crimine, della mafia, della corruzione, se non va a consultare il commentario al codice penale e la giurisprudenza della Cassazione per decidere come comportarsi, certamente ha oggi un sotto-fondo culturale e morale, una esperienza di vita in cui la convinzione che “è reato, quello che i giudici pensano quando ti vogliono fottere”. E ciò è quanto meno un alibi, un incentivo all’azzardo per delle digressioni nel mondo dell’incertezza del lecito e dell’illecito, che copre e favorisce la scelta della trasgressione.
Il mondo della capillare espansione della mafia è fatto anche di questo. Ed anche per questo tra, da una parte, i sostenitori di un’antimafia che vuole vedere la mafia ovunque, e dall’altra, la mafia stessa, e, soprattutto, l’operare mafioso, vi è una confusione crescente e mortale.
Certi principi illuministi del diritto e della procedura penale, la necessità delle prove che non siano alibi dell’arbitrio, non sono davvero un lusso e sono necessari anche nell’ottica di una lotta al crimine che non sia episodica, velleitaria e pretestuosa.
Ma, certo, è questione di capacità intellettuale. C’è da avere paura soprattutto degli imbecilli.
Mauro Mellini