All’Usura, la deformazione ed il marciume di tutto l’apparato giuridico-ideologico-politico dell’Antimafia, culminato di recente con operazioni eversive come il c.d. processo per la trattativa Stato-Mafia ed altri casi ad esso connessi e cominciato a franare con la “scoperta” dello scandalo della “confiscopoli” palermitana (Saguto ed altri) la classica punta dell’iceberg dell’affarismo antimafia, vede aggiungersi un altro scandalo: quello del “pentitismo”. Che oramai, proprio mentre sembrava raggiunta una rassegnata assuefazione alla loro barbara ed incontrollata utilizzazione, scopre taluno tra i suoi più ripugnanti abusi.
Un vizio di fondo inficia il sistema del “pentitismo” (che è viziato per il solo fatto di essere “il” sistema di “lotta” alla mafia e ad ogni altro rilevante fenomeno di criminalità). E’ quello denunziato già da Alessandro Manzoni nella “Storia della Colonna Infame”, in cui con parole indimenticabili dimostra la sostanziale identità tra la tortura e la “promessa di impunità”.
Gli inconvenienti, gli abusi, gli errori giudiziari conseguenti l’uso dei “pentiti” con la “legislazione premiale” (ma vantaggi ed impunità, almeno parziali furono elargiti ai pentiti prima che la legge lo prevedesse, cioè perciò solo abusivamente) non si fecero attendere, e si moltiplicarono man mano che tutto il meccanismo del contratto alla mafia si andò ad incentrarsi su tale metodo. Io cominciai a scriverne nel 1986 (“Il giudice e il pentito”, Milano, Sugarco) e poi con articoli, ed altri libri, sempre denunziando casi vergognosi e grotteschi di pentiti bugiardi, calunniatori, falsari presi “con le mani nel sacco”, ma che tuttavia si continuavano ad “utilizzare” e coperti nelle loro malefatte per non “danneggiare” l’impianto di processi quasi sempre con numerosi imputati, nei quali ciascuno di essi è “utilizzato”.
I casi in cui, più che credere ai pentiti, magari sbugiardati da “riscontri” negativi, da prove sicure della loro falsità, i magistrati hanno “chiuso un occhio” e finto di crederli, sacrificando la verità, l’innocenza, la vita di persone da quelli accusate, condannandole per evitare di “delegittimare l’intero lavoro” di questi personaggi, che chiamare “collaboratori di giustizia” è una vergognosa bestemmia, non sono pochi. E non sono mai mancati.
Ma col passare degli anni un fenomeno sporadico, quello dell’utilizzazione da parte di questi criminali del ruolo e del potere loro accordato per “regolare i loro “conti” di malavita con i loro antagonisti e, magari, con persone che avevano resistito alle loro azioni criminali, è cresciuto e divenuto più sfacciato. Ma è cresciuto anche quello di cosiddetti “pentiti” che si sono valsi della “copertura” loro assicurata dal “programma di protezione” e di sciagurati legami di confidenza e di reciproci favori con magistrati e funzionari di polizia, per intraprendere una “collaterale” nuova (si fa per dire) attività criminale.
Ne ho fatti i nomi di più d’uno. Ma il fenomeno più pericoloso è quello meno palpabile, “implicito”. Se, purtroppo, a denunciarlo apertamente come tale, a fare nomi, a rivelare l’esistenza di questi autentici “scheletri negli armadi” della giustizia e di quelli di certi particolari magistrati “lottatori”, mi sono quasi sempre trovato isolato, il fenomeno è avvertito e lamentato (anche se molto prudentemente) da altri magistrati e da molti appartenenti alle Forze dell’Ordine, che spesso si trovano di fronte l’arroganza impudente di questi “amici del dott. X”.
Il caso del “collaboratore di giustizia” Varacalli assassino “delegato” da Carabinieri e Magistrati in Sardegna al compimento delle indagini su un delitto dal lui stesso compiuto, calunniatore di un innocente con quel che segue, di cui ci occupiamo (e ci occuperemo intensamente) è forse il più grottesco, ma non è nuovo.
Diversi anni fa ebbi occasione di difendere in Cassazione un giovane agente di Polizia calabrese, accusato da quello che aveva ritenuto un suo superiore, “maresciallo della Mobile di Torino” in trasferta in Calabria con un folto gruppo di Funzionari ed Agenti venuti dal Piemonte per indagini sulla ‘ndrangheta, che infuriato perché aveva “disobbedito” al suo suggerimento di andare ad “infiltrarsi” nella mafia locale, gli aveva appioppato una serie di altri addebiti. Condannato in primo grado, parzialmente assolto in appello, riuscii a farlo uscire pienamente assolto col giudizio in Cassazione. Il “maresciallo della Mobile di Torino”, non era affatto un maresciallo né un poliziotto, ma il pentito Franco Brunero “in trasferta collaborativa” in Calabria, dove, sotto mentiti spoglie, partecipava ad interrogatori, perquisizioni ed arresti. Ed a persecuzioni di Poliziotti che gli “mancavano di rispetto”.
Manco a farlo apposta qualche giorno fa, già impegnato nella preparazioni della “campagna” per il caso Baldussu, ho potuto rileggere un articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 24 novembre 1996 che avevo messo da parte, con la notizia dell’arresto di tre “pentiti” che a Genova avevano messo a segno una serie di rapine in banche. Tra di essi il pentito Franco Brunero di 46 anni, torinese….proprio l’ex falso maresciallo della Mobile in trasferta in Calabria!!! Tornato alla sua più antica professione.
Ecco come si “coltiva” il riciclaggio criminale del pentiti!
Ma, se l’uso dei pentiti è stato fin dall’inizio dell’introduzione di questo sistema ripudiato già nell’800 (lo è stato sempre) piuttosto un abuso e se alla forzatura rappresentata dalla mancanza di ogni vero metodo di critica e di riscontro delle dichiarazioni dei pentiti, si è sempre aggiunta una illegale ed, anzi, delittuosa “copertura” (diretta ad evitare la “delegittimazione”, cioè la obiettiva valutazione della loro credibilità) delle peggiori malefatte di questi pretesi “collaboratori di giustizia”, malefatte endoprocessuali ex extraprocessuali, oggi si è arrivati a superare i limiti del grottesco per stimolare la fantasia di questi furbastri delinquenti. Basti pensare ad alcuni aspetti del c.d. processo per la trattativa Stato-Mafia ed al ruolo di icona dell’antimafia militante conferita ad uno squallido personaggio come Ciancimino Junior, pentito della mafiosità di suo padre.
Certe collusioni P.M. (e non solo) – con i pentiti sono vere e proprie manifestazioni di un nuovo tipo di criminalità, che non potrà non avere derivazioni e conseguenze nella creazione di una nuova mafia, più pericolosa e coriacea di quella che sta tramontando.
Ciò che più preoccupa è il silenzio e la connivenza della stampa su certi scandali del “pentitismo” (come su quelli, più in generale, della c.d. Antimafia). Ed ancora una volta a voci isolate e deboli come la nostra è, di fatto, attribuito un ruolo sproporzionato che è quasi pazzesco non rifiutare. Ma dobbiamo fare tutto quel che possiamo.
Mauro Mellini
Sulla questione dei “pentiti” Mauro Mellini ha scritto:
Sull’”impunità” nel diritto penale dello Stato Pontificio
“Eminenza la Pentita ha parlato”, Pironti, Napoli, 1982
II ed. Adriatica, Ancona, 1983
e poi
“Il Giudice e il Pentito”, Sugarco, Milano, 1986
“Una Repubblica Pentita” Ed. Notizie Radicali, 1984
e, nella traduzione in spagnolo,
“Una Republica arrepentida” in Quadernos de politica Criminal, Universidad Complutense, Madrid, 1995
“Nelle mani dei pentiti”, Spirali, Milano, 1999
“Processo al Capomandamento”
Ed. Il Giusto Processo, Roma, 2003
“Tra corvi e pentiti”, Koiné, Roma, 2005
“La Fabbrica degli Errori”, Koinè, Roma, 2005
L’argomento, inoltre è trattato diffusamente nei libri
“La bancarotta della giustizia”, 1994
“Il golpe dei Giudici”, Spirali, Milano, 1994