Ancora proposte di divieto di pubblicazione di intercettazioni telefoniche, mormorazioni di pentiti, iscrizioni nel registro degli indagati, avvisi di cosiddetta garanzia (garantito sputtanamento).
Divieti, minacce, multe, confische. E’ inutile dire “staremo a vedere”. Tutto è già visto. Non si riuscirà ad impedire che lo jus sputtanandi dei media prevalga su ogni altro diritto di singoli, della comunità, della civiltà.
E’ dunque impossibile impedire che notizie di procedimenti e dei relativi atti trapelino e che giungano a soddisfare la famelica attenzione dei pennivendoli dei giornali, dei mezzibusti delle televisioni?
Macché impossibile! Provate a far arrivare in certe redazioni notizie succosissime, di quelle di cui si ritiene che i pennivendoli vadano a caccia, quelle che non si riesce, secondo le leggende metropolitane, a tenerle riservate nemmeno comminando la pena di morte per chi le lasci trapelare. Se da quelle orecchie i signori pennivendoli (ed equivalenti tali) non vogliono sentire, quelle notizie non usciranno da quelle silenti redazioni, benché siano venute fuori a vele spiegate dagli uffici giudiziari, magari, però, senza il “placet” e l’”imprimatur” di certi Procuratori che sanno manovrare i rubinetti dell’informazione.
Su queste pagine abbiamo scritto del “segreto ultra istruttorio” vigente a Palermo, o meglio per riguardo di “quelli di Palermo” (magistrati, professionisti dell’antimafia con ruoli vari, imprenditori “antipizzo” e, magari registi di “docufilm” di lotta alla mafia etc. etc.) usando la metafora di un ideale “Bosco della Ficuzza” dove vengono segretamente sepolte notizie che “non s’hanno da pubblicare”, come il matrimonio che “non s’aveva da fare né ora né mai” di manzoniana memoria, secondo l’avvertimento dei “Bravi di Don Rodrigo”.
Non abbiamo fatto che qualche esempio.
Si potrebbe pensare che no, sono gli uffici giudiziari di Palermo che, ligi al dovere della riservatezza, impediscono certe “fuoriuscite di notizie”. Ma, in certi casi è il silenzio che è d’oro (è il caso di ritenere che proprio di questo si tratta: dell’oro che tutto ottiene, anche ciò che sembra impossibile. E si vede, perché chi si attiene a questo aforismo e lo mette a frutto cioè tutti i cosiddetti giornalisti), riescono ad ignorare pure le sentenze pubblicate e le notizie in esse contenute che dovrebbero essere accessibili “urbi et orbi” (caso Musotto: sentenza per sequestro di persone pseudoantimafia: l’episodio più gustosamente pirandelliano intervenuto nell’ultimo mezzo secolo, taciuto accuratamente da tutti i giornali).
E, poi, non sono solo le notizie di quanto avviene al Palazzo di Giustizia di Palermo a riuscire a sottrarsi, in certi casi, alla benché minima pubblicità.
Si direbbe, invece, che sono alcuni personaggi che, come una volta avveniva proprio a Palermo ed altrove, per essere “famigliari” dell’Inquisizione (quella Santa, che illuminava la vita dei popoli con i bagliori dei roghi degli eretici) erano “esenti” dalla giustizia ordinaria. Ci sono oggi “famigli” e famigliari dell’Inquisizione Antimafia, degli architetti dei processi per le “trattative”, che sono esenti, se non dalla giustizia (si fa per dire) ordinaria, dall’ordinario sfruttamento che, in nome della giustizia e del preteso diritto-dovere di informazione, massacra la gente comune.
Gli industriali (per concessioni regionali) siciliani, il “vertice” di Sicindustria si sa, sono tutti antimafiosi “doc”.
Industriali antimafia. E, come tali, famigli e famigliari della giustizia inquisitoria antimafia, mecenati dei relativi “movimenti” etc. etc. sono esenti dalle torture della giurisdizione ordinaria e dello jus sputtanandi che di essa è espressione.
Anche quando si tratta di giustizia non “palermitana”.
Qualche anno fa la Procura Distrettuale Antimafia di Roma presentò al G.I. una copiosa istanza di sottoposizione a custodia cautelare di oltre una quarantina di persone. Per reati di mafia.
C’erano nomi famosi e, nel caso, scontati. A cominciare da Totò Riina. Ma gli facevano compagnia altri personaggi altrettanto famosi, per il loro ruolo “antimafia”. Cioè industriali “antipizzo”. E mica di secondo piano.
Basti uno che ricordo bene: Campione. E, magari, il fratello dell’eco-diffamatore antimafia che più antimafia non si può, Arnone (l’avvocato) di Agrigento.
Gli affari riguardavano appalti e lavori per il porto di Palermo.
E per quello di Civitavecchia, del cui ambiente alcuni nomi noti figuravano tra i quaranta e più “catturandi” secondo la Procura Antimafia di Roma.
Erano passati degli anni ed avevo ragione di ritenere che quella richiesta contenuta in diecine di pagine, fosse stata rigettata. Succede di tutto, anche con le richieste dell’Antimafia, almeno per quelle “anormali”, “forestiere”.
Essendo civitavecchiese, mi incuriosii e domandai ad alcuni Colleghi della mia città natale che cosa ne sapessero di quella mancata retata di operatori economici del porto. Cascarono dalle nuvole sostenendo che, evidentemente mi sbagliavo di grosso. Nessuno aveva pensato ad arrestare per mafia il comm. Tizio ed il dott. Caio insieme, nientemeno a Totò Riina.
Feci varie copie di quell’istanza e le inviai a Civitavecchia, dove suscitarono la più clamorosa incredulità.
La stampa non ne aveva parlato; come era possibile che tutto ciò fosse avvenuto in silenzio?
Quel procedimento, o meglio, la sua “naturale” eco sputtanatoria, era finito, benché impiantato a Roma, al metaforico “Bosco della Ficuzza”. E varii miei concittadini avevano beneficiato dell’”esenzione” accordata ai famigliari siciliani della Inquisizione, non santa, ma Antimafia.
Questa è la libertà di stampa in Italia. Libertà di mercato. Di mercato del silenzio che, in certi casi, è veramente d’oro. Di molto oro, è da presumere.
E poi andate a discutere di progetti di “protezione” della gente dalle “fughe” di notizie giudiziarie!!!
E’ la storia dell’oro del silenzio.
Mauro Mellini – www.giustiziagiusta.info