Anche se le storie, come le barzellette e le fotografie, non andrebbero spiegate, ci tengo a dire che con questo racconto voglio sottolineare la differenza che ancora esiste nella nostra società tra il ruolo e le libertà che hanno donne e uomini.
Il mio maresciallo preferito stavolta non è protagonista, come nel racconto “La Rossa“, piuttosto è sullo sfondo. Un po’ sfocato, ma c’è.
Come in una bella fotografia.
Eppure l’avevo vista, e rivista, un sacco di volte.
Ci salutavamo quando ci incontravamo, non spesso ma ogni tanto.
Ci davamo del tu; qualche volta siamo anche capitati insieme in ascensore, lei che andava al piano di sopra.
Una volta avevo anche provato ad invitarla a cena: aveva rifiutato con una scusa, avevo capito ed era finita là.
Sì, era bellissima. Bellissima. Ma chissà perché riuscivo a rimanere indifferente a quei capelli scuri, quegli occhi neri, ai suoi dieci o forse quindici anni di meno.
Oddio. Indifferente no. Quando la incontravo la pressione saliva sempre un po’ e il battito accelerava, ma insomma, erano le normali reazioni ormonali di un maschio in buona salute; non ci avevo mai visto nulla di più, e non c’era nulla, più di questo.
Non che non mi sia chiesto il perché di questo apparente distacco.
E la risposta più facile era Sandra.
Anche se non eravamo sposati e vivevamo in due appartamenti separati, a pochi minuti di macchina, io e Sandra ormai facevamo coppia fissa da più di dieci anni.
Ad un certo punto c’era stato un mezzo progetto di andare a vivere insieme, di sposarci, avere dei figli.
Poi, chissà, il tempo era passato senza che ce ne accorgessimo, i nostri piani erano diventati sempre più dettagliati e poco concreti, e alla fine ci siamo resi conto che tutto sommato la nostra vita andava bene così.
Spesso passavamo la notte l’uno a casa dell’altro, ma non sempre.
E più spesso era lei che stava da me.
Ad essere sinceri, a me non andava tanto di dormire da lei: mi mancavano le mie cose, il Mac, la partita in televisione, e poi aveva quel gatto un po’ rincoglionito che perdeva peli dappertutto e mi sporcava le giacche e mi faceva starnutire.
Sandra era però la mia sicurezza, la mia ancora, la mia famiglia. Forse non più la mia passione, ma mi piaceva pensare a noi due come una coppia stabile.
Quando ero con lei stavo bene, ero sereno, se non felice.
E non pensavo alla mia bellissima vicina. Mai.
Poi un giorno la incontrai mentre saliva in ascensore.
Mi affrettai per raggiungerla, ed entrai con un sorriso che lei ricambiò, cordiale come sempre.
Mentre spingeva il pulsante per salire al quinto piano – il mio – l’occhio le cadde sulla mela bianca che campeggiava sul mio portatile.
– Hai un Mac anche tu? – chiese, un pochino stupita.
– Sì, certo. Sempre avuto Mac – risposi con il tono orgoglioso che hanno tutti gli adepti della religione di Cupertino.
Lei infilò le mani nella borsa e ne trasse un Macbook.
– Ne ho comprato uno anche io – disse – ma non so perché non riesco a configurarlo bene. Tu mi potresti aiutare? – chiese con un sorriso.
Vediamo: una bellissima ragazza chiede ad un uomo se la può aiutare in un campo di cui egli è esperto e lei apparentemente no.
C’erano possibilità di rifiutare?
– Certo – risposi cortese – se me lo vuoi lasciare gli do un’occhiata e poi magari ti chiamo quando ho fatto –
Fu allora che accadde.
Che mi guardò diversamente.
Che divenne seria, anche se gli occhi ridevano e le brillavano.
– Facciamo così – propose con un tono di voce calmo e quasi sussurrato – dato che stasera avevo intenzione di starmene a casa tranquilla ti lascio il Mac per un paio d’ore. Se riesci a sistemarlo, ti sei guadagnato un invito a cena. Che ne dici? –
Che ne dicevo? Cosa ne potevo dire?
Uscii al mio piano con il Mac di Anna – la vicina – e mi precipitai a casa.
Buttai il cappotto per terra all’ingresso e guardai l’orologio: le sei. Ce la potevo fare.
Mi misi subito al lavoro, configurai il collegamento wi-fi con la mia rete, accesi il Macbook di Anna e cercai di capire cosa non andasse.
Un’ora dopo era tutto a posto. Anna aveva aggiornato i software in dotazione ma non il sistema operativo. Scaricai l’aggiornamento, feci un po’ di pulizia di vecchie release, e il Macbook fu sistemato.
Ora toccava a me.
Mi feci una doccia come se non mi fossi mai lavato in vita mia, la barba con un’accuratezza speciale, camicia pulita, maglione giovanile; insomma, mi sentivo come se andassi ad un appuntamento.
In realtà, mi dicevo, era solo una carineria. In fondo mi aveva fatto lavorare gratis, e non dovevo sperare che la serata andasse in direzioni impreviste.
Comunque alle otto suonai alla porta del piano di sopra, con in una mano il Macbook di Anna e nell’altra una bottiglia di vino.
Nei pochi secondi che intercorsero tra il rumore dei suoi passi e l’aprirsi della port, il mio cervello mi proiettò l’immagine di Anna, curatissima, issata su due tacchi assassini, con indosso solo un vestitino leggero e della lingerie ricercata.
Ovviamente la donna che mi aprì la porta era struccata, indossava una tuta da ginnastica, e aveva i capelli raccolti in una coda con un elastico.
Se si accorse della mia delusione non lo diede a vedere.
Mi fece entrare con un sorriso, appoggiò il Mac all’ingresso, prese la bottiglia e la mise sulla tavola, già apparecchiata per due.
Mentre lei chiacchierava dalla cucina del più e del meno mi guardai intorno.
Aveva una bella casa, più o meno speculare alla mia, ma arredata con più gusto. Un grande specchio rimandava l’immagine del salone aggiungendo profondità all’ambiente.
La cucina era praticamente a vista, e potevo sbirciare Anna mentre sistemava le ultime cose.
Si presentò con due scodelle.
– Non ti dispiacerà se ho preparato dell’insalata, vero? Non aspettavo ospiti, e non mangio mai molto la sera. Ma se hai fame ho anche una torta di mele, anzi mezza a dire il vero, che dovrebbe essere buona. Io non mangio dolci, ma ha un bell’aspetto. – concluse con un sorriso gentile.
– L’insalata andrà benissimo. E forse anche la torta – risposi conciliante – In fin dei conti ho sempre un paio di chili da togliere, ormai saranno dieci anni che me li porto a spasso. –
Lei rise, e cominciammo a mangiare.
La cena durò poco, perché alla fine mangiammo solo l’insalata, e ci spostammo sul divano a chiacchierare, bicchieri di vino in mano.
Parlammo delle cose che ci piacevano, delle nostre famiglie, del nostro lavoro – lei era consulente del lavoro in una società svizzera di cui non ricordo il nome – insomma una chiacchiera tra amici.
Io non avevo dimenticato la cura con cui mi ero preparato, ma la serata stava diventando una piacevole e innocua riunione tra condomini, quando Anna ad un certo punto, senza preavviso, posò il bicchiere e mi chiese:
– Se ancora vuoi quello che desideravi quando mi hai invitato a cena qualche mese fa, lo puoi avere –
Probabilmente la mia mandibola raggiunse l’ombelico per lo stupore, ma non era il momento di girarci intorno.
– Certo che lo voglio. Sono venuto apposta, stasera – risposi arrischiando una baldanza che non sentivo. In realtà me la stavo facendo un po’ sotto.
Ma lei non sembrò accorgersene, e mi prese per mano portandomi in camera da letto.
Del tempo che trascorse da quel momento non saprei raccontare, ero in una specie di stato onirico, la passione cancellò quasi completamente le mie facoltà intellettuali.
Ricordo solo che ad un certo punto dissi:
– Non resisto più –
E lei mi guardò, un po’ incattivita.
Abbassò gli occhi. Era sopra di me, mi bloccò le mani con le sue e disse con un filo di voce:
– Non ci provare. Morditi le labbra, pensa a tua nonna, a qualche brutto servizio del telegiornale, fai come ti pare, ma non mi mollare adesso o mi incazzo sul serio. E non sto scherzando –
Mia nonna, poverina, non mi sembrava proprio il caso di scomodarla in quel frangente.
Allora pensai a Laura, una mia compagna di classe brutta, ma veramente brutta, con la quale ero finito a letto l’ultimo anno del liceo, forse più per necessità che per interesse.
E che avevo incontrato dopo venti anni e venti figli, a giudicare dal suo stato di conservazione.
E che ad un certo punto, dopo che chiacchieravamo del più e del meno, si era avvicinata all’orecchio e mi aveva sussurrato: “Sai che ancora ripenso a quella volta? Qualche volta ancora mi eccito pensando a te, dovremmo rifarlo”. Ero scappato via con una scusa, disgustato.
Ecco: ripensare a Laura mi aiutò parecchio, anzi, forse anche troppo perché ad un certo punto il problema sembrò spostarsi nella direzione opposta, e fui costretto a riaprire gli occhi per guardare Anna che muoveva lentamente la testa, gli occhi chiusi, un labbro tra i denti tirato da un lato.
Alla fine lei fece un grande sorriso, stirò le braccia, e poi si accoccolò sul mio petto.
Fu allora che mi resi conto di amarla.
Io non volevo solo il suo corpo, non volevo solo stare a contatto con la sua pelle.
Io volevo lei, io la adoravo, era già parte di me.
E mentre le carezzavo piano la testa, e poi la schiena, le natiche, pensavo alla vita insieme, a dei figli, ai viaggi.
Pensavo a me e lei come una cosa sola.
Durò un paio di minuti quell’idillio, poi lei si alzò.
Pensai che dovesse andare in bagno, ma quando mi girai mi accorsi che era in piedi vicino a me, con un sorriso come sempre, ma con i miei vestiti in mano.
Il mio sguardo sorpreso la fece ridacchiare, e si sentì in dovere di una spiegazione. Che forse fu la cosa più umiliante.
– E’ stato bello. Sei stato carino, e pensare alla nonna è stato molto gentile da parte tua. Però ora ti devi vestire e tornare di sotto, io voglio dormire. Da sola. E no. Se te lo stai chiedendo, non si ripeterà. Non sarebbe neanche successo, se non fossi stato così gentile con me, oggi. Non voglio casini nei posti dove lavoro e dove abito, e non voglio relazioni. Di nessun tipo. Quindi per quanto piacevole sia stato, non si ripeterà. A meno che io non abbia un altro computer da sistemare – concluse facendomi l’occhiolino.
Io ero senza parole mentre mi rivestivo, e non dissi niente finché non mi trovai sulla soglia.
Allora tentai di dirle:
– Ma… –
Mi interruppe con un “sssssth”, mi baciò sulle labbra, e mi chiuse la porta in faccia.
Nei giorni seguenti lo stupore piano piano lasciò strada ad un solo sentimento: il desiderio.
La desideravo, fisicamente e non solo. La amavo, volevo rivederla.
Era diventata un’ossessione, e tutto quello che non si era manifestato in tutti quegli anni di vicinato, esplose incontenibile, finché un giorno non le mandai un messaggio.
Pensavo di essere spiritoso e sul whatsapp scrissi: “Nessun computer da riparare oggi?”, con tanto di sorrisino e cuore.
La risposta fu secca: “No, e non prevedo si rompano in futuro”.
Fine. Porta chiusa.
Allora le chiesi l’amicizia su facebook, cosa che non avevo mai fatto finora perché anche io ci tengo, anzi, ci tenevo, a non avere rapporti troppo stretti con i vicini di casa.
Aspettai un paio di giorni, ma non accettò.
Allora le mandai un messaggio privato: “Ehi! Sono io, volevo rimanere in contatto con te”.
Non rispose, ma lesse il messaggio, e quando tentai di mandargliene un altro capii che mi aveva cancellato del tutto. Non potevo più vederla.
Mi scoprii arrabbiato a quella mossa.
Va bene, mi dicevo, non vuoi più scopare con me? Ok, lo posso capire, ma perché non vuoi neanche sentirmi?
Mi hai trattato come un oggetto.
Che cosa sei, solo una puttana?
Il sentimento non conta niente per te?
Ero infuriato, e lo fui per diverse ore, poi Sandra mi raggiunse; cercai di non farle percepire il mio stato d’animo, e facemmo persino l’amore, con lei gentile e dolce come al solito, e con me che pensavo alla donna al piano di sopra.
Nei giorni successivi cercai di evitare di pensare ad Anna, e ci riuscii.
La sera stavo sempre con Sandra, per lo più a casa sua, gattaccio o meno.
Di giorno lavoravo fino a tardi, prendendomi anche rogne che non mi spettavano.
Sapevo che dopo un po’ la morsa che mi prendeva allo stomaco sarebbe scemata, e poi svanita del tutto.
E ad un certo punto mi sarei dovuto rassegnare a vendere casa e ad andare a vivere con Sandra e il suo gatto.
Sì, meglio così.
Raggiunta quella consapevolezza mi sentii meglio, e rallentai un pochino la frenesia dei giorni precedenti.
Fu così che un pomeriggio arrivai a casa non tanto tardi, e mentre stavo per salire sull’ascensore sentii la sua voce:
– Enrico, aspetta, saliamo anche noi! –
Mi girai, e lei era lì.
Bella. Bellissima. Sorridente.
E non era sola.
Con lei c’era un uomo mai visto, più o meno della sua età. Alto, atletico, un bel sorriso.
Si vedeva che i due se la intendevano.
Avrei dovuto esserne lusingato: Anna mi aveva messo in un gruppo ristretto di persone di cui faceva parte anche quel figo pazzesco.
Ma in realtà non lo ero. Ero infuriato. Lei era mia, e invece da lì a pochi minuti avrebbe scopato con quell’altro.
Non potevo sopportarlo.
Tenni gli occhi bassi per tutto il tragitto dell’ascensore poi uscii rapidamente borbottando un saluto.
Arrivai alla porta di casa, la aprii e la richiusi istantaneamente, poi mi appoggiai alla porta, gli occhi chiusi, respirando affannosamente.
Quando il panico si fu calmato, riaprii gli occhi e mi diressi verso lo studio.
Avevo deciso. Se lei non poteva essere mia, non doveva essere di nessun altro.
L’avrei uccisa.
Ma non volevo finire in galera, quindi decisi di ucciderla senza fretta.
Prima dovevo lavorare per eliminare le tracce del nostro rapporto, poi dovevo tenere un comportamento che non avrebbe destato sospetti, e solo allora avrei potuto ucciderla.
Perché io l’avrei uccisa. Era deciso.
Per prima cosa cancellai tutti i messaggi che le avevo mandato. Per fortuna l’unico whatsapp era scherzoso, e comunque lo cancellai dal mio telefono, ragionevolmente certo che lei avesse fatto altrettanto.
Stessa cosa per i messaggi su fb.
Telefonate non ce n’erano state.
Qualche email, che cancellai pur sapendo che un esperto avrebbe potuto ritrovarle, ma per fortuna ero stato cauto.
Quando terminai di bonificare tutto passai alla fase successiva.
Dissi a Sandra che era ora di andare a vivere insieme, e che la sua casa mi piaceva tanto, e anche il suo gatto; che avrei messo in vendita la mia, e così feci davvero.
Sandra ne fu felice e dopo pochi giorni mi trasferii da lei; così non incontrai più Anna.
Fino al giorno in cui la uccisi, ovviamente.
Misi su una maschera felice, al lavoro ero sempre di buon umore, con Sandra premuroso, con la famiglia e gli amici non accennavo mai a problemi, non litigai più neanche con il parcheggiatore che tutti i giorni voleva un euro per farmi lasciare la macchina sotto l’ufficio.
Insomma: dovevo essere irreprensibile e allontanare qualsiasi sospetto.
Attesi un paio di mesi, mi sembrava un periodo sufficiente, e una sera misi un po’ di sonnifero nel bicchiere di Sandra. Niente di forte o di cui potesse rimanere traccia.
Tra l’altro lei ha sempre un sonno profondissimo, volevo solo essere sicuro che non si svegliasse.
La convinsi ad andare a letto tardi, dopo aver visto un film pallosissimo.
L’effetto fu immediato: dopo cinque minuti dormiva russando sonoramente.
Uscii di casa e andai al mio appartamento, che ancora non avevo venduto.
Salire al piano superiore non fu uno scherzo, ma neanche difficile: la chiostrina interna dava sui bagni più lontani, e ricordavo bene che la camera da letto di Anna era lontana almeno quindici metri dal bagno.
Mi issai con una corda che avevo preparato, erano pochissimi metri e c’erano degli abbondanti cornicioni.
La serranda era tirata su, un po’ come la tenevano sempre tutti, perché la chiostrina era buia e serviva sempre un po’ di luce. E quasi nessuno la chiudeva la notte, lo avevo già notato da tempo.
Pigrizia, fatalità, chissà.
Fatto sta che praticamente tutte le finestre dei bagni che davano sulla chiostrina erano aperte, o almeno con la serranda rialzata, e quello di Anna non faceva eccezione.
Entrai facilmente nel bagno, e mi mossi con cautela.
Era improbabile che un uomo fosse rimasto a dormire con lei, ma non volevo correre rischi.
Nella mano destra avevo il coltello che avrei usato, ma mi ero portato una vecchia pistola che tenevo in casa da anni per sicurezza.
Dovendo scegliere, preferivo la galera al cimitero.
Ma non ci fu bisogno di usarla.
Arrivai in camera da letto, e lei era lì.
Bellissima. Nuda. Sopra il letto.
La diagonale del suo corpo che disegnava delle geometrie perfette con le braccia e le gambe, e il seno morbido che si abbassava e alzava al ritmo del suo respiro.
Le infilai il coltello dritto nella gola con un solo movimento secco.
Non aprì neanche gli occhi, non ne ebbe il tempo.
L’unico indizio che si accorse che la morte stava sopraggiungendo fu uno scatto con gli arti, tutti e quattro insieme.
Sembrava una marionetta che finiva l’ultima piccola riserva di energia.
Ed era proprio così.
Estrassi il coltello, attento a non tagliarmi, e lo pulii sul lenzuolo.
Poi la guardai per l’ultima volta.
Quanto era bella. E quanto l’amavo!
Uscii dalla camera da letto, mi trattenni qualche minuto per guardare la casa alla luce tenua dei lampioni stradali, ben attento a non passare davanti alle finestre, poi con una certa riluttanza me ne andai dalla porta, la chiusi delicatamente dietro di me, e tornai a casa da Sandra, dopo aver gettato il coltello e i guanti in un cassonetto lontano da casa di Anna.
Le ho raccontato tutti questi dettagli perché ormai non c’è più ragione di mentire, Maresciallo.
Ho capito che nonostante tutte le mie accortezze siete riusciti a provare che ad uccidere Anna sono stato io, e almeno così mi toglierò questo peso dallo stomaco.
No, non dalla coscienza: quello che ho fatto è terribile, ma anche quello che lei ha fatto a me, mi creda.
Non mi sto giustificando, non servirebbe a niente. Ma una donna non può illudere così un uomo per poi deluderlo, non può.
Non sono impazzito, se è quello che pensa, anzi, non credo di essere mai stato più lucido in vita mia.
E mi creda, nonostante la sua competenza e intuito, e la sapienza informatica del suo vice, non sareste mai risaliti a me, se la rabbia e l’amore non mi avessero fatto commettere quel piccolo errore.
Lo so.
Non avrei mai dovuto frantumare il suo Macbook e usarne i pezzi per scrivere “Puttana” sul pavimento.
Ma un uomo è un uomo. Lei converrà con me, Maresciallo.