Calogero e Gioacchino Scopelliti, fratelli in ordine d’età, a Gibellina se la passavano bene. Il primo, una sessantina d’anni vissuti da prete e compressi in un corpo che amava il vino non solo durante la messa, aveva la testa caprigna, mai disposto a cambiare idea neanche di fronte all’evidenza dei fatti. Se necessario, avrebbe negato non solo l’evidenza ma anche la resurrezione di Cristo se questa era in contrasto con qualche sua presa di posizione, vuoi per convinzione, vuoi per dispetto a dio ed ai santi.
Perchè Patri Scopelliti, come lo chiamavano i nobili, ovvero Don Calorio, come lo chiamavano il popolino ed i “viddani”, dispettoso e “cruzzuto” lo era davvero assai. Persona comunque difficile anche sotto Natale e Pasqua, con una faccia di “passapitittu”, la sua acidità trovava biglietto da visita nel suo naso pieno di venuzze violacee e negli occhi eternamente lacrimosi. Due cose lo infiammavano come un “surfareddu”: nominargli Giolittii — quel gran cornuto che, lui pretino appena nominato, gli aveva tolto la chiesa per farci ricovero di asini e muli — ed il progresso, che per Don Calorio era come dire socialismo e quindi il trionfo del diavolo sull’acquasanta. Ed era uno spettacolo: incurante di chi fosse presente — anzi, più occhi c’erano più si faceva vampa — si strappava il collarino bianco, si dimetteva temporaneamente da prete e cominciava a “santiare” fino a quando non finiva il calendario, e spesso facendo santi quelli che ancora manco erano nati.
Solo lui, solo il fratello Gioacchino, più piccolo di sette anni, che non si era mai sposato perchè “amava” la vita diceva lui, amava “la vita” dicevano le malelingue del paese, insieme dividevano la spaziosa casa dove erano nati e vissuti da sempre.
Gioacchino Scopelliti, l’ingegneri Scopelliti per il paese intero, in verità non era un ingegnere ma una specie di agrimensore, che si occupava di tracciare confini e misurare e stimare terreni; abbastanza onesto in questo suo lavoro, lo era meno nell’amministrare il feudo del Barone…. — cosa che comunque, a detta dei gibellinesi, rientrava lo stesso nell’onestà perchè meglio che i terreni al Barone glieli mangiava un paesano che non qualche malacarne palermitano che regolarmente a carte fotteva il Barone o, a piacere, qualche buttanazza finta innamorata francese che otteneva lo stesso risultato facendosi fottere. Perchè, ed era cosa nota pure a Santa Ninfa e a Salaparuta, da Montevago a Menfi, che a Palermo il Barone era fottuto pure quando fotteva.
Tanto contrario al progresso Calogero, tanto votato al futuro Gioacchino. Diversi ed opposti pure nel fisico: basso, magro e nero come il carbone il prete; alto, rossigno e bene in carne Gioacchino. Una cosa però dava certezza sul fatto che avevano lo stesso sangue, a parte l’indiscussa moralità della povera madre: l’uguale identica enorme incrollabile testardaggine. L’amore fraterno li univa ma una visione della vita con colori diversi li portava spesso, e per giorni e giorni, a consumare i pasti in assoluto silenzio.
La casa dei fratelli Scopelliti, come quasi tutte le case dei gibellinesi, non era ancora servita dalla Società Elettrica e l’illuminazione, parziale ed occasionale, era demandata a dei lumi a petrolio, quei lumi che nei film fanno tanto romantico ma che nella realtà se poca era la luce prodotta, non altrettanto poco era l’odore di petrolio che impregnava la stanza. Quindi nessuno si stupì quando, al Circolo, tra un tressette e l’altro, Gioacchino Scopelliti, ingegnere di nome e quasi di fatto, rese pubblica la sua decisione di dotare la propia abitazione di energia elettrica. Ma se nessuno si stupì dell’idea progettuale, i presenti, e successivamente tutta Gibellina, si divisero in due gruppi che, senza grande fantasia, ebbero ingiuria: i parrinari, cioè quelli convinti che mai e poi mai Don Calorio avrebbe permesso che il diavolo entrasse a casa sua sotto forma di lampadina, e gli scienziati, ovvero quelli che pensavano che di fronte all’avanzare del progresso non c’era testa che potesse fermarlo, manco quella caprigna di un arciprete.
Prevedibile come lo spuntare del sole ogni mattina, Don Calorio si oppose alla nuova impresa di Gioacchino, bollandola come stramma, inutile, perniciosa, antieconomica e, per colmare la misura casomai ci fosse ancora largo, degna di un casino di buttane di città. Che al loro bisogno, i lumi a petrolio bastavano ed avanzavano. Gioacchino, impipandosene altamente del pensiero del fratello, anzi ora con maggior gusto, firmò il contratto per avere la luce elettrica, pagando addirittura la sovrattassa per avere diritto all’esecuzione con urgenza dei lavori. E immaginava che, come le altre volte, Calorio avrebbe incassato il colpo e dopo un paio di giorni, avendo sfogato la bile tra bestemmie e vino ed insulti a Giolitti, avrebbe accettato la novità e non se ne sarebbe parlato più.
Ma non fu così. Don Calogero Scopelliti non spense il lume e la casa godette di doppia illuminazione: quella a petrolio e quella elettrica. E finchè ognuno era per i fatti suoi, la cosa non si notava, ma quando la sera erano entrambi i fratelli a cena, nella stessa stanza, la gente che passava non poteva fare a meno di notare e commentare la spaziosa chiara luce elettrica che contrastava la tremolanti ombre prodotte dalla fiamma a petrolio. Perchè il prete al fratello soddisfazione manco morto! E continuò a tenere acceso il lume come se senza di questo la casa fosse completamente al buio.
Passarono le settimane e la situazione rimase ferma, petrolio ed elettricità continuarono, inconsapevoli rivali, a far luce insieme ai due fratelli. Ma la storia ormai era conosciuta anche nei paesi vicini, e grazie al Barone anche in qualche ambiente palermitano, e Gioacchino, che tra i due era quello che più stava per strada, capì che bisognava chiudere la partita che già stavano avvicinandosi pericolosamente al punto che i paesani ti portano come esempio di “stolitaggine”. E, su consiglio del Barone e con la sua complicità, organizzò una cena, con invitati alcuni illustri uomini del paese, certo che il fratello non avrebbe acceso il lume per evitare di esporsi ai commenti degli ospiti.
Ed ancora una volta non fu così. Patri Scopelliti si presentò a tavola con il suo lume, incurante degli sguardi divertiti dei commensali. Il lume, al centro di tavola, stava come un convitato di pietra la cui utilità nessuno coglieva. Dopo qualche timida battutina, considerata l’assoluta tranquillità dell’arciprete, la cena si trascinò sempre più in un silenzio imbarazzato, nonostante Gioacchino cercasse con gli occhi e con cenni della testa di spingere gli amici verso il discorso del lume. Ad un certo punto il Barone prese il toro per le corna e, rivolto a Don Calorio, gli disse:”Patri Scopelliti, non per farmi i cazzi vostri, ma si può sapere a che vi serve questo lume se avete la corrente elettrica?”,
E l’arciprete: ”Barone, lo capirete quando me ne andrò stasera a dormire”.
E, dopo una mezz’ora buona, quando la cena fu conclusa e si passò ad argomenti che neanche per un prete come Don Calorio erano da sentire, Patri Scopelliti, prendendo congedo dagli ospiti, così li salutò: “Buona continuazione e che Dio vi benedica. E scusatemi se vi lascio allo scuro!”. E preso il lume si avviò a trovare il suo letto.