“Attìa”, con l’accento sulla “i”, in dialetto siciliano, è una brutta parola.
Non è una parola volgare, una di quelle che servono ad offendere l’onore o l’intelligenza — che in Sicilia queste sono le offese che hanno peso, un tempo gravissima quella all’onore ma oggi superata da quella all’intelligenza, che ad esser cornuti non c’è colpa ma ad esser cretini lo si è per scelta.
La traduzione italiana sarebbe “Ehi,tu!”; e dico sarebbe perchè non è proprio così.
Il dialetto siciliano ha mantenuto per buona parte, e nonostante tutte le invasioni subite, la costruzione tipica del latino — pensate che l’uso dei tempi dei verbi è rimasto tale e quale: laddove un italiano direbbe “ci sei andato?”, passato prossimo, riferendosi ad un’azione svolta poco prima, un siciliano si esprimerà con un “ci isti?”, passato remoto, poiché ormai, anche se trascorso poco tempo, l’azione è morta e sepolta e si è consumata, o non consumata, senza possibilità di appello. Quindi “attìa” andrebbe tradotto meglio con “a te!”, caso dativo in latino, dove resta sottinteso il verbo “dicu” cioè dico a te!
E’ il termine che l’adulto usa nei confronti del ragazzino di strada che sta commettendo una “vastasata”, il padrone che si rivolge al garzone di bottega, il sovrastante che sceglieva “l’omini pi la campagna” e che oggi sceglie gli immigrati clandestini per le giornate di vendemmia.
C’è comunque sempre un sapore forte di arroganza e superiorità di censo o d’età o di razza, e spesso tutte e tre le cose, in chi usa quest’espressione.
Fa eccezione, e io penso che sia l’unica, l’attìa che il padre rivolge al figlio, dove spesso al rimprovero c’è mescolato tanto di quell’amore che il figlio più che rimproverato si sente premiato.
Domenico Savio Lo Presti