“Le definizioni, oltre che omologare, in qualche modo rassicurano, e rendono innocuo, tenendolo sotto controllo, ciò che definiscono: artista, pazzo, handicappato, omosessuale, drogato, rom, carcerato, extracomunitario, malato, negro, prostituta, vecchio rincoglionito … tutto perfettamente inquadrabile avendo come riferimento il concetto di normalità, che cambia a seconda delle epoche e le dominanze culturali: o dentro o fuori, o sopra o sotto. Al limite ai margini”. (Sotirio Roccanuova)
Una volta un cosiddetto pazzo mi ha regalato un foglietto con su scritto:
L’onta non si conta
Né l’anta si canta
Ma lenta si pente la panta
Che unta di punta
Si vanta di essere santa.
E che cos’è?, gli ho detto sorridendo.
È il motto ufficiale della mia famiglia, mi disse convinto.
Caspita, famiglia nobile, immagino: originale.
Allora ti piace.
Certo che mi piace, è bellissimo.
Ero sicuro che ti piaceva, mi disse, sgranando gli occhi.
Ah sì?, e perché?
Tu non sei un medico normale.
Ah no? , e come sono?, gli dissi, indeciso tra l’esserne lusingato o preoccupato.
Tu con noi ci puoi stare.
Ah, ecco. (Questa cosa potrebbe entusiasmarmi).
Non so se la sua definizione di medico corrispondesse alla mia, o la mia a quella sua di pazzo: ma il mio essere medico e il suo essere pazzo si erano incontrati, mantenendo intatta ognuno la sua sacrosanta diversità.
Forse lui in me aveva riconosciuto una certa dose di follia. O forse io, dopo averlo frequentato da medico, avevo imparato a comunicare con lui usando, magari inconsapevolmente ma di sicuro senza pregiudizi, qualcosa del suo “linguaggio di folle”, e, perché no?, lui qualcosa del mio “linguaggio di medico”, anche se non normale.
2.
“Siamo tutti diversi, ma noi siamo normalmente diversi, gli altri
no.”
La diversità che ci mantiene distanti non è nelle cose che noi sappiamo fare e gli altri no!, ma nel linguaggio: il parlare la stessa lingua ci accomuna, ci avvicina, nel senso di non rimarcare troppo le differenze, che a volte diventano veri e propri abissi! – ma senza neanche tanto trascurarle! Ponendo l’accento sul linguaggio, si avvertirà meno la distanza se ci sforziamo di imparare la stessa lingua: questo modo DIVERSO di stare insieme, è il senso di un progetto che ho sviluppato quando stavo a Casa della Speranza, ad Agrigento: Sai parlare l’handicappese?
È un banale ribaltamento: spesso l’incomprensione, anzi: l’equivoco, nasce dal fatto di pretendere, da qualcuno che non sa fare le nostre stesse cose, che sia o diventi il più possibile simile a noi. Cosa che facciamo anche con persone non handicappate ma culturalmente lontanissime da noi: parlare la stessa lingua ci fa essere molto più vicini, ci fa sicuramente comprendere di più che avere le stesse capacità e competenze alcune volte è oggettivamente impossibile, ma molto più spesso di quanto non si immagini, è una grandissima risorsa: integrazione, interazione, inclusione assumono così un significato ben più consistente se con umiltà scopriamo il linguaggio degli altri e lo impariamo, prima di imporre loro il nostro, sempre in un contesto di riconoscimento, di rispetto e tolleranza reciproci: forse è un po’ più faticoso, ci si espone di più, si rinuncia ovviamente a parecchio, ma proietteremmo molto di meno le nostre aspettative – o le nostre mire – su chi non è come noi.
Una evoluzione accorgersi dei blocchi, le tensioni muscolari, gli spasmi, le macroglossie, l’incontinenza emotiva: sperimentarle su di me è stata una vera e propria epifania: all’inizio, diciamo dopo qualche mese, già cominciavo a parlare come Giuanni, che ha un’articolazione leggermente spastica e farfugliata:
“Ciau, Giuà, comu sì?” E Giuanni,: “A chi è, babbu?”
Poi, dopo qualche anno: “Ciau, Giuà, comu sì?”
E Giuanni: “Picchì parli accussì?…”
Ultimamente è capitato che io sia stato nominato presidente, dico: Presidente di Casa della Speranza. Allora la nostra infermiera, Adriana, va da Giuanni e gli fa: “Giuà, u sa’ ca Totò addivintà Presidenti?” E Giuanni: “Cu, stu babbu?”
Questo per dire che appena uno apprende il linguaggio … i ruoli si ribaltano completamente.
È più che legittimo, in alcuni casi persino realizzabile, cercare di ottenere il massimo dalle persone portatrici di handicap psico-fisico, (anche da noi stessi, ci mancherebbe!):
Tutti gli individui, se sostenuti efficacemente, sono modificabili.
Nel senso di un cambiamento migliorativo. Ma partire dal parlare la stessa lingua ci fa essere sicuramente molto più vicini nella comprensione reciproca, l’handicappese come il bambinese, il vecchiese, il malattese, il marginalese, il follese, il drogatese, l’extra-comuinitariese, l’omosessualese, il disadattatese, il rompiballese, lo scassaminchiese ecc ecc … tutte lingue che tralasciamo di imparare perché altrimenti saremmo costretti a mettere in discussione la nostra cosiddetta normalità, relegando gli “altri”, che non sono come noi, in qualche ghetto, e non solo mentale.
Una volta sono venuti a trovarci a Casa della Speranza dei ragazzi di liceo. Allora mi sono attivato, come al solito, a coinvolgere qualche nostro ragazzo per animare gli ospiti e farli sentire a loro agio. E ho pensato bene di coinvolgere Elisa in una scenetta teatrale, perché noi a CdS abbiamo fatto moltissimo teatro, come formazione e come palestra continua di espressione corporea, per imparare a dare valore alle nostre emozioni e a indirizzarle bene nelle relazioni – tanto per vantarmi, immaginate che nel 1990 siamo stati censiti dalla CEE come l’unica realtà del Sud Italia che lavorava con il teatro in quanto mezzo, formativo ed educativo; poi subentrarono quelli di Caltagirone e Catania … – Elisa ha un piccolo ritardo e parla a scatti, molto emotiva, quasi bloccata – per superare questo blocco spesso la “scritturo”. Naturalmente funziona e lei ama farsi “scritturare” da me. Per cui, improvvisando lì per lì, le chiedo di interpretare una scena d’amore famosa, tratta da Shakespeare, e allura ci dissi:
“Perciò, Elì, ora ca vennu sti picciutteddi d’a scola, facemu Giulietta e Romeo, iu e tu, va beni?. Iu e tu, capisti?” Ed Elisa:
“E iu chi fazzu?”
Vabbè. Allura c’insignavu chiddu ca m’avìa a diri, e infatti vennero gli alunni del liceo e al momento della scenetta Elisa mi fa, con uno sforzo emotivo incredibile:
“Romeo, perché sei tu Romeo?” Bravissima, tutti colpiti, e io, improvvisando: “Ah non so qual sorte crudele, io Montecchi, tu Capuleti, tanto nemici da impedirci di vivere alla luce del sole il nostro amore – perché io e tu ci amiamo così tanto! …” E idda calava a testa:
“Sì, sì, sì …” Ci assi cumminutu. Arrivatu a un certu puntu bona mi parsi e ci dissi, iu ad Elisa: “E tu Giulietta, perché sei tu Giulietta?”
Idda mi talià e mi dissi: “A chi nni ssacciu, iu!”
“Totò, chi facisti stanotti cu to muglieri? …” Pietru, ca parla aggranchiulutu e una tensione muscolare molto sviluppata, fa quel gesto tipico del pugno chiuso verso il basso – ehm! Na vota s’arricampà a CdS il nostro Arcivescovo per una visita, allora gli facevo vedere la struttura, le attività, i laboratori, e tutt’a na vota spuntà Pietru, di luntanu, ca appena mi vitti …
“Totò, Totò …”
O Beddamatri, unn’è ca ora, davanti all’Arcivescovo … ammeci!
“Chi facisti stanotti e quattru cu to muglieri? … ” e il solito gesto, con un sogghigno nervoso.
Iu taliàvu all’Arcivescovo imbarazzatissimo – ‘inchia d’a mala figura! – il quale però, bontà sua, allargannu i grazza mi dissi:
“Eh, anche questo! …”
“Pppùùhhh. Buttana”
“Totò, ò-ò ppùta”
“E pirchì sputa?”
“È pappu”
“Haiu fami, Totò, chi dici, m’u mangiu un simicciu?” Va beni.
“Totò, allibuscià u sticcu manzunnìcu?” Può darsi.
“Ciau, Giuà. Chi ti sta mangiannu?”
“Ciau, Turì. Acinna misalla.”
“Chi?…”
“Acinna misalla”.
“Ah.”
“E posittu, Turì.”
“Posittu? …”
“Cosafatte”.
Giuanni m’atturrava la testa a gennaio perché voleva organizzato il compleanno, che però lo faceva a giugno, vidi chi testa mi facìa pi sei misi. E mi mostrava una lista di cose che avrebbe voluto che comprassimo noi, cose da mangiare e da bere. All’inizio un vero e proprio enigma: intanto una piccola lista di invitati: ATIRIANNA lo capisco, sta per Adriana. Anche Mario, Totò, ATÙO, che sta per Arturo, GIOHINO, per Gioacchino, ma FAHISICCO con l’acca nel mezzo? Ava’! TERESICCO? Ch’era masculu. E soprattutto TACATARA: mistero? – Ma poi la lista più importante, quella delle cose da mangiare e da bere – avanti, vediamo se indovinate:
– MACARE[1]
– COCACOLLA
– TOVAOLLI
– PATTI[2]
– OLIVVE
– ACINNE MISALLA[3]
– APIATTI[4]
– TERAMEZZU[5]
– BETTE/SALLATINNE[6]
– PATTATINNE
– POSITTO COSAFATTE[7] (indovinatelo, se siete capaci!)
– POSITTO COTTO
– SALATTA ROSA[8] (questo è facile)
– SIMICCI[9] ( e questo?)
[1] PANCARRÈ
[2] PIATTI
[3] ARANCINE CON LA MOZZARELLA
[4] tu pensi: arrè piatti? “No patti, apiatti! – SPRITE!
[5] TIRAMISU
[6] BIBITE/SALATINE
[7] PROSCIUTTO SENZA CONSERVANTI
[8] INSALATA RUSSA
[9] SANDWICHES
3. A Casa d’a Spranza.
Quasi ogni matina m’arricampu a “Casa d’a Spranza”. Subitu Vicenzu mi saluta:
“Ciau, cumpà”, cu dda so facci magra e scura, i capiddi niuri, assittatu ncapu na seggia d’o iardinu, cu l’occhi calati ma ncapu di mia, ca pari affunciatu. Vicenzu havi un ritardu mintali né ccà né ddà, ed è psicotizzatu. Veni a diri tanticchia foddi. Però mi saluta sempri, e si’ nuddu lu nsurtunìa iddu sta carmu e saluta a tutti.
A “Casa d’a Spranza” è a Giurgenti sutta u vecchiu manicomiu. C’è ‘na vista ca leva u *xiatu.
U mari luntanu pari vicinu e lu cielu si tocca cu na manu. I Templi su’ pusati nill’aria virdi.
“Totò, chi ghiornu è, oi?” m’addumanna sempri Pietru. Facemu cuntu ca è luni. E iu apposta ci dicu: “Vènniri”. E iddu, chicchiannu un pocu: “Unn’e beru: oi luni è, Totò”, e arridi aggranchiannusi i manu o pettu, cu la nirbatura ca ci nesci di lu coddu. Pietru è chiddu ca voli sapiri chi fazzu a notti cu me muglieri, arriminannu a testa avanti e annarrè: “Bellu, bellu!” E arridi, cu i manu e i grazza ancora cchiù accruccati.
A “Casa d’a Spranza” è na palazzina a tri piani in via Gramsci, a strata ca di Bonamuruni, d’u cimiteru vecchiu, porta o Viali d’a Vittoria. Pari ca di la morti a la vita s’av’a passari pi forza di ddocu. A “Casa d’a Spranza” è a mmenza strata. Veni ‘ntesta A libretta russa d’u ziu Luici: chiddi di Nisia portanu li morti di sutta versu ‘ncapu, a Chianu Lanterna, d’u càvudu o friscu, d’u pruvulazzu all’aria netta. S’acchiana e basta. D’u ‘Nfernu o Paradisu, pi via dritta.
Chiddi di Giurgenti portanu li morti di ‘ncapu versu sutta, a Bonamuruni (ora ficiru u cimiteru di Chianu Gatta. Ancora cchiù sutta). D’u Paradisu o ‘Nfernu.
C’è stu problema sissuali ca pari na cruci granni: ‘na speci di bisognu ca ogni tantu veni fora. E comu si fa?… Però è bellu quannu si fannu ziti tra d’iddi. Cesari na vota si fici zitu cu Serafina. E bravu Cesari.
“O Ce’, e chi ci fa cu Serafina?”
“A vasu”, arrispunnìa, pronunciannu la “essi” cu a lingua troppu appuiata nni li denti di latu, pirchì l’avi grossa e strascina, comu tutti li pirsuni Down.
Na vota li chiamavanu mongoloidi pirchì assumiglianu a li mongoli. Mah. Si chiamanu Down, ca è u nnomu d’u dutturi ca nnu 1866 capì sta malatìa, ca poi a cunsidiralli malati sti pirsuni mi pari un pocu esageratu: su’ pirsuni, pirsuni Down e basta.
Prima d’a guerra campavanu 9-10 anni. Ora canusciu Down ca campanu cchiù assà di sissant’anni. Certi voti Cesari mi fa viniri na pena! – tenerezza, significa! – pirchì ci dicu: “Cesarì, chi nni pensi di l’amuri?” E iu giustamenti pensu a Serafina. Iddu ammeci m’arrispunni, sempri cu tutti li “essi” strascicati: “Eh, fari l’amuri … sessu … masturbazioni …” Sapi chi boli diri.
A “Casa d’a Spranza” è sempri ddà, sutta u manicomiu, tra u Viali ddà ncapu e u cimiteru ccà ssutta.
I carusi handicappati na vota li chiamavanu babbi o cretini pirchì eranu – e su’ – nnuccenti. Cretinu veni d’’u francisi Chretien, e significa “cristianu”. E ccu, cchiù cristianu di unu ca nunn’havi lu sensiu d’arraggiunari? Nnuccenti.
Babbu ammeci è grecu, latinu e arabu ansiemi: nsumma a storia d’a Sicilia e di Giurgenti.
Handicappatu ‘un significa nenti: na parola nglisa, di chissi ca si usanu pi moda, ca significa “svantaggiu”, pi megliu diri: a manu nnu cappeddu!, hand in cap! Comu nni cursi d’i cavadda.
Handicappati, “disabili”, “diversamenti abili”, o puru tanti antri cosi ca dicinu sulu quantu nantri – cosiddetti “normali” – nni vulemu mantèniri luntani di cu nunn’assumiglia, o di cu nun vulissimu essiri: i foddi, i drogati, l’arcolizzati, i carzarati, i malati: (ironico) mischini!
A “Casa d’a Spranza” grapì na quarantina d’anni narrè grazi a un parrinu risulutu, don Angilu Ginex, a na maistra vulintirusa, a signorina Grenci, e o prufissuri Vicenzu Riali, pidiatra di chiddi bboni.
Na vota Casa d’a Spranza era nna scola. Ora è Centru Riabilitativu.
Na vota l’handicappati eranu nichi e patri e matri eranu giovani.
Ora iddi su’ ‘ranni e patri e matri su’ vecchi. E na pocu mureru.
E n’antra pocu criscinu, e n’antra pocu nascinu …