Insomma, c’era parecchio sole. Imposte bianche, serrate. E non era mezzogiorno.
Il viaggio che compie il sole lo conosciamo. Dal primo vagito all’ultimo sbadiglio rauco, non facciamo che volgergli lo sguardo, interrogare, scrutare, offrirgli il viso come si offre ai parenti in visita.
Era questo il paese, troppa luce, qualche albero disseminato nei campi. Andava comunque bene. Sarei potuto arrivare in un giorno di pioggia e sentirmi immalinconire, o addirittura trarne un auspicio negativo, si sa come funzionano i superstiziosi, e io lo sono.
Quattro passi verso la stanza che il Dipartimento aveva fissato per me, da una affittacamere del paese che collaborava. Avevo il computer, i documenti criptati, e le mie idee, alle quali ben presto avrei opposto delle prove, prove inoppugnabili, come se le prove potessero essere prese a pugni e non il contrario. Riflettevo su quante volte le prove che avevo raccolto avevano più che altro sconvolto me. Dovevo, in pratica, rimanere fermo ad aspettare, il mio lavoro consisteva nel raccogliere e successivamente mietere. Niente semina. Gli altri, con un po’ di fortuna, avevano già seminato. Dunque, le mani. Erano la cosa più evidente. Le mani.
-Buongiorno Luca, fatto buon viaggio? Visto che bel sole oggi? Entra. Come sta mia cugina, tutto bene?-
L’affittacamere usciva dal portoncino e scendeva due gradini, mi si avvicinava con premura, come una vecchia zia, e in tutta quella luce non riuscivo a capire se avesse addosso dei colori o fosse semplicemente una foto in bianco e nero. Sbattevo gli occhi, niente, niente colore. La baciai, meccanicamente :
-Tutto bene zia, tutto bene. Tu? Ti trovo in forma- Colsi lo sguardo preoccupato, un movimento ansioso degli occhi che controllava rapidamente l’aria intorno, la minaccia delle tortore radunate ai bordi della grondaia, la violenza del sole, chi può dirlo. Poi con fare protettivo mi conduceva nella casa, all’ombra, al fresco. Respirai di sollievo.
-Bene. Vuole bere qualcosa?- e intanto girava sui tacchi e andava in cucina, immagino, tornava con due bicchieri su un vassoio, una bibita giallastra.
-E’ cedrata, vedrà, è buona-
Lentamente, tutto riacquistava colore, il divano, le poltrone con i cuscini rossi, la stuoia sotto il tavolo, le persiane verdi. Solo lei rimaneva in bianco e nero: la faccia bianca, i capelli neri ma imbiancati alle tempie, il vestito nero, le scarpe bianche. Non era una vecchia zia, pensai.
-Mi scusi- bisbigliò. Annuii, ma non sapevo bene di cosa la dovessi scusare, e non andammo oltre. Mi mostrò la stanza e mi lasciò in pace. Sopra un tavolino c’era un giornale, un quotidiano, con una data piuttosto antecedente. Era di maggio. Che strano mese è maggio per morire, e morire così. Le foto sul quotidiano mostravano un campo e un involto scuro, dei pali e delle strisce di plastica bianche e rosse che delimitavano la zona. L’avevano trovata lì, in quel bel campo con le rose selvatiche. Rose di maggio. Era passato quasi un anno. Ora eravamo in aprile, c’era un sole che manco ad agosto, ed avevo freddo. Il quotidiano era una modesta testata locale, la collaboratrice me lo aveva lasciato lì, per caso. Non ne avremmo parlato mai, ero lì per riposare. La campagna piatta e soleggiata, un certo silenzio, più cupo dell’omertà, il campo non lontano. Ero in vacanza, per i curiosi del paese. Venivo dalla città, quelle che non fanno bene alla salute. C’erano altre foto, ma niente di particolareggiato o rilevante. Quelle peggiori le avevo io, nel mio computer. Lo liberai dalla custodia.
Dunque le mani. Intatte.Giunte sul cuore. I capelli. Biondi, amorevolmente pettinati, al centro della fronte un frammento di specchio, il corpo volto ad est. Così se ne erano accorti, un mattino. Il sole si era posato sulla fronte della ragazza, e qualcuno portava a spasso un cane. Il sole, lo specchio, il cane. L’uomo col telefonino. Il cuore fermo della ragazza. Non c’era niente sul suo corpo, solo un cuore fermo, una pietra. Il vestito di cotone, e i piedi nudi, con dei calzini bianchi. Le scarpe non erano state più ritrovate. Intorno non s’era rivelata una impronta, un niente. Tutto pulito accanto a lei, qualche fiore reciso, al momento del ritrovamento, appassito. Era di maggio, delle rose selvatiche, a strapparle ci si punge. Chiedevo di analizzare i cespugli lì intorno. Era davvero semplicemente morta, in un bel giorno, dopo aver fatto l’amore in un campo già stanco di calore? E con chi era stata, chi l’aveva abbandonata? Le mani, le avevano lavato le mani, fin sotto le unghie, con un detergente a base di mandorle, avevano detto le analisi. Se era morta di morte naturale, nessuno aveva provato a rianimarla, non se ne ravvisavano i segni. Aveva fatto l’amore, si, ma nessuno sembrava averla forzata. Ogni volta che guardavo quelle foto rimanevo a pensare. Era una ragazza abbastanza comune, non fosse per quei bei capelli lisci e biondi, e la fronte serena, il viso simmetrico. Giovane, appena sedicenne forse. Era venezuelana, in visita alla nonna, in quel paese minuscolo, silenzioso, stretto dietro una porta diroccata di pietre antiche. Le foto scorrono, ce ne è una di lei, il primo giorno che era arrivata dai nonni. Aveva gli occhi verdi, e lo stesso vestito di cotone.
-Va bene- mormorai, -andiamo di nuovo al campo.-
Il campo, per il furore del calore, era già mezzo ingiallito, in basso rispetto al paese, appartato. L’erba alta, secca, confusa assieme a cespugli ingemmati, emanava un profumo di estate, un languore meridiano. Era stato analizzato con scrupolo, delimitato, piantonato. Non si era trovato nulla, tranne che un fiammifero carbonizzato, e una buca abbandonata dalle talpe. E una piccola garza, appena un velo. Con tracce di detergente alle mandorle. Praticamente niente. Dovevo immaginare. Non mi piaceva affatto, ma l’ipotesi più volte sostenuta, anche dai miei collaboratori era che la ragazza se ne fosse scesa dal paese verso sera, anche se la nonna diceva che la piccola aveva sonno ed era andata a coricarsi. Che c’è di strano, magari aveva un filarino: una ragazzina così, per giunta straniera, in quel paesotto, attirava come il miele. Lei e il ragazzino si erano incontrati a metà strada e si erano appartati. La vedevo, scendere, nel sonno del crepuscolo, accanto al ragazzo di cui nessuno sapeva niente. Perché si muore? Certo questa non ci voleva, che mi facessi una domanda così cretina sotto un sole a picco. Poi erano venuti qui, ora rifaccio i passi, risalgo, riscendo, mi accoccolo, penso alle ragazze della mia vita, e non so perché, mi viene in mente la “zia”. Quella in bianco e nero che avevo lasciato poco fa, nella casa in ombra. Scossi la testa. Loro sono quindi venuti qui, hanno fatto l’amore, e lei è morta. Semplicemente il cuore. Il ragazzo si è spaventato ed è fuggito. Prima l’ha composta, come si fa con i morti molto amati, con coloro che sono preziosi e si fatica a lasciar andare via. Inutile dire che non mi torna. Mentre risalivo il paese mi sembrò di intravvedere, alzando la testa, dietro ad una finestra, una sagoma familiare, e un conciliabolo, un ardore soffocato, una rabbia.
In casa non c’era nessuno ad aprirmi, utilizzai la chiave che la collaboratrice mi aveva data. Una volta dentro mi misi ad osservare bene le stanze. Nel salotto buono, al centro del tavolo, campeggiava un vassoio d’argento massiccio, con sopra delle teiere panciute, sempre d’argento. Un pezzo d’antiquariato piuttosto costoso, lucidissimo. La casa tutta sembrava irreprensibile. Passai nella stanza della collaboratrice. Aprii i cassetti e li osservai, senza toccare nulla. C’era della biancheria di cotone, molto semplice, ben piegata, ma sotto ad uno strato di rigidi reggipetto criss cross affiorava qualcosa. Presi la penna dal taschino della camicia e scostai appena la biancheria. Pizzi fantasia, sete giaguarate, e sotto la carta, che ricopriva la base del cassetto, si indovinavano altri indumenti frivoli. Avevo ragione, non era una vecchia zia.
Passai nelle altre stanze ma non vi trovai che un incantevole squallore, e un ordine ancora più anonimo. In bagno neppure un cosmetico, non una semplice bottiglietta di acqua di rose, o un detergente. Frugai con circospezione nella sua cucina, niente, tranne dei prodotti per lucidare l’argento. Poi mi parve che qualcuno provasse a girare la chiave nella serratura alla porta d’ingresso, dove avevo lasciate infilate le mie di chiavi, perché nessuno mi disturbasse.
-Oh scusami, zia, ti vengo ad aprire- Aprii con forza la porta e la spalancai con tale impeto che la donna me la ritrovai tra le braccia. La tirai dentro e richiusi la porta.
-Scusami sai, ho questa abitudine, di lasciare la chiave nella porta, l’ho fatto meccanicamente- e intanto la osservavo, nella penombra dell’ingresso, addossata alla parete, che tentava di dominarsi, e di capire cosa mi fosse preso. Cercava di sembrare una vecchia, ed era invece una donna alta e ancora giovane, di quelle apparentemente sfiorite nel zitellaggio in un paese di vecchi. Niente tinta ai capelli, calze nere pesanti, giacchetti informi. Accesi la luce. Abbassò gli occhi.
-Tu la conoscevi?- le chiesi.
Lei annuì con la testa.
-Dove sei stata?- Intanto mi avvicinavo. Lei mi fece cenno di tacere. Gli occhi le si incupivano ed erano verdi, terragni come la palude in fondo ai terrapieni del paese, oltre il campo, infestata dalle zanzare e da tante voci moleste.
– Hai detto che erano dieci giorni appena che era qui, dai nonni, quei due vecchi disperati.-
Si, si, replicava lei.
-Ho letto tutte le testimonianze, sai. I tuoi genitori sono ancora vivi?-
Mi guardò sorpresa. Ma non rispose.
-Quei due vecchi sono i tuoi genitori adottivi. Quindi, quella, era anche tua nipote.-
-Si, l’ho già detto, mia sorella, la mia sorellastra, è partita per il Venezuela con il marito anni fa. Hanno avuto questa bambina, che noi non avevamo mai visto.-
Le mani. Dunque le mani. Se le torceva, così bianche, senza gioielli, delle belle mani grandi, curate.
-Con chi ti sei vista oggi?-
Smise di tormentarsi le mani.
-Scusi, saranno fatti miei- replicò alzando la testa risentita.
Pensai, sul serio, che era una bella donna. Che avrei voluto portarla di là e chiederle di indossare il suo armamentario segreto, e guardarla mentre si toglieva di dosso quegli abiti simili ad un catafalco, l’avrei voluta vedere nuda, come avrei voluto sentirmi confermata la nuda, nuda verità, e cioè che lei era una assassina.
Ma non la toccai. Le chiesi del mestiere del suo amante. Antiquario.
-Argento- ammise.
-Argento- replicai. Allora mi seguì, perché io la conducevo per il polso verso la cucina, dove c’era il prodotto per pulire l’argento. Quello con il teschio sulla confezione, quello che odora di mandorle amare.
-Scommetto- le sussurrai –Scommetto che per pulire la sera questo bel viso usi un latte detergente alle mandorle, di quelli antichi, efficaci. La tua bella pelle di mandorla e rose.- Posai tutto il mio corpo sul suo, lei cominciò a piangere.
-Così l’hai uccisa- le sussurrai all’orecchio, perché?
Cercò di ribellarsi, di dire di no, ma le tenevo la testa ferma, premuta contro il muro.
-Con chi doveva vedersi, la ragazza?-
I suoi occhi, e le sue mani inerti, ora. Doveva vedersi con l’amante della zia.
-E perché, perché, mormorai, non hai ucciso lui?
La stanza era illuminata, il paese lontano. Si aggredivano, fuori, dei merli.
Lei aveva lottato, incredula, e la zia le aveva somministrato quel prodotto, al cianuro. Poi l’aveva ripulita, con il latte di mandorla, e pettinata. Posta verso il sorgere del sole, con in fronte una stella, almeno questo. Era di maggio.