Sono qui, con un taglierino in mano, stavolta lo faccio, il lenzuolo bianco, a terra è pronto a macchiarsi. Ho rinviato, posticipato, interrotto. Ma adesso basta. Non c’è ragione per la quale io debba stare a guardare le mucillaggini del passato. Non c’è motivo che mi spinga ancora a chiedere a una foto cosa sarà del mio futuro. La parete è bianca, presto si colorerà di rosso sangue. Colore di passione e di perdita forte. Colore che spesso non ha mezze misure. Io non ne ho. Me lo ricordo ancora quando ti ho incontrata per caso. A un evento mondano, una mostra, letterario-artistica, quelle in cui vanno finti intenditori e veri idioti. Io ero accompagnato dalla mia incapacità di capire subito quando una frase per chi ti ascolta ha valore e quando no. Tu eri accompagnata da tuo marito, un uomo che sembrava riuscire a sfidare la legge fisica dei corpi solidi, ignorandoti e considerandoti inesistente pur essendo tu lì.
Eccome se c’eri. Non ho mai dato un soldo di credibilità a quegli uomini che lasciano raccontare le loro donne, spesso dicono “si è innamorato di me perché abbiamo parlato tanto, abbiamo capito di essere fatti l’uno per l’altra”. Si, poi scopri che lui prima di arrivare a conclusioni poetiche aveva dissertato con sé stesso sulla tua misura di reggiseno. Mentre lei magari in un momento di audacia avrà accostato il righello a un ideale membro maschile sperando che nella realtà appartenesse a lui almeno della metà.
La vita è così, gli incontri spesso sono così e se sono con questo taglierino in mano è anche per questo. Quello che sto per fare non sarà più difficile di tutto quello che mi ha portato in questa casa vuota. Quella sera ti ho guardata, ma non ti ho osservata. Ho preso la tua tristezza e l’ho archiviata come un orpello bello a vedersi e per certi versi affascinante di una delle tante serate in cui mi trascinano gli amici da quando hanno deciso che la mia solitudine va riempita. Di che?
Di qualcuno che mi dica cosa devo indossare? Chi devo frequentare? Poi gli amici. Gente che non sa gestire la propria vita e poi vuole trattare con competenza quella degli altri. Paperi malfermi che sfasciano maldestramente le loro giornate appresso a moglie e figli e poi vogliono curare la cristalleria della tua anima e ti dicono di fidarti.
Io non mi fido e faccio bene. Mi sono sempre detto, per questo adesso il fidarmi mi ha portato qui con una lama da tirare fuori. ho deciso quella sera, ma ancora non lo sapevo. Ti sei avvicinata, forse per curiosità, forse perché è da tempo che ho capito che per rimorchiare davvero alle feste devi stare in disparte con aria malinconica. Come se tutto il peso del mondo gravasse su di te. Se nascondessi un dramma inenarrabile che poi confidi alla sventurata che ci casca. Alla fine mi hai sorriso, forse ho intuito in quel momento che sorridere è sinonimo di disarmare, poi se serve a colpire alle spalle non so, ma di sicuro fa perdere le difese. Non era un sorriso consegnato alla circostanza. Era proprio spedito con un mittente e un destinatario tu lo mandavi a me. Ho cercato di intercettare tuo marito, per capire se ero sotto contraerea. Nulla, anzi, mi sembrava interessato a una formosa e anche un po’ volgare. Tu non lo eri volgare. Non so perché ma il mio sguardo su te si era concentrato conico. Disegnava il contorno attorno a te sfumando il resto. Ribadisco, bella davvero.
Ma io non ho capito. Mi sembrava un approccio da noia e da ricevimento in cui si è in tiro si è collocati in maniera ornamentale ma comunque si è fuori posto. Ti sei avvicinata. Vedevo ondeggiare i tuoi capelli e mi rendevo conto che ti guardavo in viso, la mia geografia del decifrarti è iniziata da lì, oltre che l’irrefrenabile desideri di sentirti parlare di qualsiasi cosa, fosse anche che non avevi ancora pagato il bollo auto ed eri indecisa se farlo. Ho indistintamente sentito qualcuno dentro me, uno gnomo, un pidocchio, un troll, non so, ma sicuramente chiunque fosse stava prendendo qualcosa di emozionale da uno scaffale alto, non completamente sconosciuto, ma sepolto da tanto tempo, troppo, irriconoscibile e spinto fuori dalla quotidianità, eppure forte e intenso.
- Che noia
- Già, sei sola? (so già la risposta)
- Formalmente no, sostanzialmente si
- (allora non so la risposta) bevi qualcosa?
- Non qui però, in terrazza
- Si, vai che ti raggiungo

Abbiamo parlato di tutto, vita, figli, insoddisfazioni, solitudini. Io ti davo risposte da seduttore, sperando che in quel viso incastonato da due occhi vivi, scaturisse un bacio. Tu invece eri sincera e naturale, io avvertivo come un fastidio. Come quando tieni il braccio sotto l’acqua con un livido. Ti passa qualcosa ma non è una sensazione completamente di sollievo. Il sollievo c’è stato, quello del vigliacco. Mi hai detto che eri in città per l’evento letterario cui avevi lavorato come organizzatrice, che l’organizzatore della festa e della mostra ti corteggiava spudoratamente e che, cosa importantissima non eri di qui, l’indomani saresti ripartita. Lavoravi per una società che coordinava eventi. Frase tua. In un giorno qualunque non so dire il momento esatto ho continuato a guardarti, e qual giorno ha smesso di essere qualunque.
Non eri nemmeno annoiata, parlavi dolcemente e mi hai anche detto che ti piacevano i miei silenzi e il mio ascoltarti, ma che ti incuriosiva come mi infervoravo quando parlavo di cose a cui tenevo. Tu eri collocata in un piano diverso. Eri contenta, di te, della tua vita lavorativa, ma la malinconia è subentrata quando mi hai definito la tua vita privata “arruffata”. Eri fluida, ecco come eri, fluida, scivolavi piacevolmente rendendo la serata inutile, visto che mi bastava la tua voce e quello che mi dicevi. Poi eri vestita in maniera provocante, ma pura. Non riuscivo a non guardare la linea del seno. Armonica e che si fermava al punto giusto, dove dopo iniziava a finire l’immaginazione. Ma io da lì in poi avrei voluto realtà, vista la morbidezza e la sicurezza unita a un erotismo osceno che il tuo decolté ,mi provocava.
Non ti ho baciata, ti ho salutata, archiviata tra le occasioni perse di una serata inutile. Una di quelle serate in cui invitano anche lo scrittore esordiente ma non ancora famoso, l’artista che deve dire il suo nome seguito dalla trasmissione a cui ha partecipato (sono Genoveffo Klaus..quello di “Amici” eliminato alla terza serata..). che poi “artista” è parola grossa e vuota al contempo. Tutti siamo artisti, conosco anche artisti della cazzata detta su un piede solo. Sempre artisti sono. Sono le serate del cocainomane, del politico che è cocainomane più di quello che lo è per fama, del presentatore caduto in disgrazia. A ognuno viene chiesto di rammentare al pubblico cosa era o cosa sarà.
- Sono uno scrittore
- Ah si ho comprato il suo libro l’anno scorso
- È uscito quest’anno
- L’anno scorso nulla?
- Eh che vuole farci, la crisi colpisce anche la creatività
- Brillante e spiritoso, si vede che è uno scrittore
- Ma vada a fare in culo!
- Come?
- Nulla, dicevo sottovoce che è ora che torni il chiurlo, un uccello migratore
- Ah anche ornitologo
- Scusi, mi chiamano
Quella sera nonostante tutto era la tua sera. La sera in cui per la prima volta ho fatto fatica a cacciarti dai miei pensieri e tornare a scrivere pensando al giorno in cui non ho capito perché mia moglie mi sembrava una estranea nonostante dividessimo un figlio che amo. Per questo non mi fido dei sentimenti umani. Perché pretendiamo dagli altri che cambino per noi, perché così noi rimaniamo immutati. Invece ai personaggi dei miei romanzi posso imporre le emozioni che voglio.
- Voglio il divorzio
- Perché?
- Non funziona più tra noi, tu sei distante
- E mentre mi allontanavo dove guardavano i tuoi occhi? Non ti accorgevi che scomparivo?
- Smettila, non siamo tra le tue pagine, è finita.
- Se fossimo tra le mie pagine non sarebbe finita, tu mi ameresti, forse un romanzo noioso, da non pubblicare, ma a me sarebbe piaciuto.
- Addio
Le pagine hanno confini, i sentimenti no, non li controlli non c’è word a farti fare “seleziona tutto” “cancella”. Qualcuno ti cancella però.
La mia mansarda non mi è mai sembrata così intasata come dopo quella sera. Sorridevo amaramente pensando che la mia superficialità con cui avevo deciso di approcciare l’evento mondano, mi aveva fatto perdere qualcosa che la mia mente aveva deciso interessante. Continuavi a tornare, ovunque ma io ti qualificavo come “bella e basta” per provare a ricacciarti indietro. Non si andava avanti.
Sono un idiota, non è vero che il cervello ragiona, elabora forse, ma poi va come vuole lui. Non si spiegherebbe perché in assoluto disordine alcuni giorni dopo averti visto io abbia elaborato un paio di personaggi col tuo viso per dei racconti e abbia descritto un tramonto cercando di ricordare il colore del tuo vestito.
Per questo sono qui, per non fare più del male a nessuno, per togliere dal mondo la mia disillusione, tiro fuori la lama del taglierino.
Non so come sono riuscito a non pensare a quella serata e a collocarti tra i piacevoli eventi che non si ripeteranno, ci ho messo un periodo indefinito liquefatto dall’abitudine. Tu questa decisione devi averla intuita e te ne devi essere risentita. Lo hai comunicato a qualche angelo tuo collega. E il cielo ha cominciato a fare i capricci che volevi tu.
Il mio agente, quello che le case editrici danno agli scrittori promettenti, mi dice che devo decidere per quella cosa che mi aveva accennato un mese fa. mi telefona e mi convoca, io ho la testa altrove, penso a mio figlio che non capisce le manovre di separazione placida e pretende spiegazioni che io non so dare. Poi le spiegazioni non mi piace darle a casa mia. Quando è vuota rimbomba, le spiegazioni rimbalzano e io odio vedermele tornare indietro. Entro nel suo ufficio
- Lo devi fare per te ma anche per noi Enrico
- Ma cosa?
- Il salone
- Che salone? Quello di casa?
- Enrico ma che c’hai per ora? Hai scritto un libro, hai delle opportunità professionali, capisco il tuo privato non inappuntabile, ma non mi sembra il caso di mettersi in modalità standby per questo.
- Modalità standby? Ma cazzo, la piantate tutti di farvi insegnare l’italiano dall’Iphone?
Mentre mi parla penso a guardare le pareti dell’ufficio, mi chiedo se sono i posti in cui si lavora che cambiano le persone o è il contrario. Prima di diventare scrittore lavoravo. Sono stato licenziato perché semplicemente il mio lavoro a milleduecentoeuronettealmese, lo faceva meglio secondo la nuova dirigenza una “equipe di consulenti” a settemilaeuronettelunoacapocciaalmese”.
Mentre guardo l’ufficio del mio agente mi accorgo che per la prima volta ammetto di aver odiato quella vita e sorrido. Penso al direttore che mi consegna la lettera di licenziamento e si spertica in un discorso sul ritorno economico che l’azienda avrà, prendendo quattro consulenti che fanno quello che facevo io. Mi parla di ritorni economici a trend di lungo termine, ma nel frattempo con gli occhi mi prega di prendere la lettera e andarmene, avvertendo la sensazione di essere patetico. Cominciò da li la crisi con mia moglie. Non potevo più provvedere bene alla famiglia. E ho odiato chi mi ha messo alla porta.
Ho reagito, ma non come insegnano nei corsi di autostima, sono stato ondeggiante, passavo giornate immobile a fissare il muro trovando in mio figlio l’unica ragione di allegria e momenti di euforia. Il libro che tanto successo ha avuto in soli sei mesi è frutto di un parto travagliato della mia anima. Ma ha avuto fortuna e sono entrato nei salotti giusti, fatti di gente giusta e di agganci giusti. Da dove fuggirei anche domani, se non fosse il mio futuro. Ma nel frattempo ammetto che le persone che mi hanno licenziato hanno cambiato la mia vita. Sono passato da un lavoro squallido a centocinquantamila copie del mio libro vendute. Qualcuno di loro ha provato a dire in qualche intervista trabocchetto che non aveva dubbi sulle mie potenzialità, che era stato frutto di un equivoco. Alcuni hanno anche provato a chiamarmi per andare in ufficio a firmare il libro. Le piccole misere soddisfazioni di dire “passa dall’ufficio-stampa, lascia la tua copia e te la faccio ritrovare firmata” me la sono levata.
- Enrico allora?
- Allora che?
- Vai al salone del libro di Torino? Devo comunicarlo alla Promoread
- Ma vaffanc..aspetta che hai detto?
- Vedi? Quando vuoi ragioni
- A chi devi comunicarlo?
- Alla Promoread, sai quella società cui ci appoggiamo che organizza eventi, mi sembra che tempo fa li hai conosciuti a una mostra, sono da sempre con la nostra casa editrice.
Se mi sforzo di pensare mi ricordo che quella sera di quell’evento mondano, quella in cui ho deciso che facevi veramente un bello spettacolo nella mia anima, qualcuno parlò, pronunciò questa parola :“Promoread” la dissero almeno tre persone, che si presentarono facendo seguire il loro ruolo all’interno della società.
Di uno mi ricordo la magrezza, maschio, ma non mi ricordo la faccia, guardavo lo smoking ridicolo con cui si era fasciato. Dell’altra ricordo il culo enorme e un viso carino ma non curato abbastanza. Ricordo che la terza a parlarmi di “Promoread” fosti tu. Tu lavoravi alla Promoread, oltre a sapere che ti chiamavi Roberta. Due indizi, alla prova manca poco, ma bisogna tentare.
- Vado
- Vai?
- Si, vado, avverti la Promoread che ci sono anche io.
Guardo la parete, mi accerto che il silenzio non ottunda i miei pensieri. Sono gli ultimi istanti di una vita che passerà per sempre e devo godermeli molecola per molecola.
Tiro fuori la lama del taglierino.
Il salone del libro era immenso. Cercarti non era facile, se è per questo non sapevo nemmeno se ci fossi. I giorni scorrevano veloci, il mio agente non si risparmiava per promozionare il libro. Negli ultimi giorni l’onda emotiva si stava spegnendo, in fondo il destino è una favola sciocca con cui cerchiamo di giustificare magicamente gli incontri.
L’ultimo giorno soddisfatto per la promozione del libro e pronto a rituffarmi nel quotidiano ero felice. Sono uno che non ama i picchi. Le emozioni incontrollate mi danno agitazione. Temo di sprofondare nel ridicolo, di fare qualcosa per cui un amore alla nascita, subito muoia. Preferisco di gran lunga quando i rapporti sono stabili, quando hanno preso la via delle mutande da stirare e delle abitudini insopportabili a cui ci si rassegna. Non ti avevo vista, il caso aveva deciso che non eravamo da incrociare. Bene così.
Quando mia moglie mi ha detto che era finita ho temuto il picco. Non è arrivato, “buon segno, cresco” mi sono detto.
In albergo fischiettavo, pensavo alla mia vita, il mare, il mio secondo libro da scrivere. Il primo era stato un semi giallo, un thriller con una fine grottesca. “non farti vivo” si intitolava. Ho dormito bene e il giorno dopo di buon mattino stavo per andare alla stazione. Sarei andato col treno fino a casa, mi piace il treno, ti dà il tempo di pensare, stare in silenzio, guardare gli imbecilli che fanno finta di sentirsi parte importante di questo mondo.
Stavo per chiudere la valigia ed è squillato il telefonino.
Dall’altro lato una voce atona ma con un forte accento piemontese, mi invitava a passare alla Promoread, per una conferenza stampa, un progetto del lancio del libro in inglese.
- Ma se ne occupa il mio agente
- Il suo agente è già partito
Partito senza avvert..guardo il mio telefonino un messaggio, sette chiamate. È andato via nottetempo, oggi era a Roma col pezzo grosso della casa editrice. L’autore che da solo tiene in piedi mezzo fatturato. Vuole due agenti, dice, li vuole subito, dice,uno dei due deve essere lo stesso di Enrico, dice. Lo stronzo a cui sta sulle scatole che per un paio di mesi ho venduto più di lui e allora si vendica con queste piccolezze.
Arrivo alla Promoread, dopo qualche difficoltà nell’orientarmi nella Torino storica che poi è di una semplicità disarmante, entro, sei di spalle, ti volti e sorridi, spegni ogni mia protesta illegittima, chi sono io per dirti che fai, non ti presenti al tuo appuntamento? Non sai che mi hai lasciato in eredità un ricordo che non riesco a comprimere e buttare nel cassonetto della raccolta differenziata delle memorie andate a male?. Non è bello. Ma il bello è che tu ti giustifichi lo stesso.
- Mi spiace non esserti venuta a trovare al salone
- Non fa niente (non faceva niente fino a cinque minuti fa, ora fa tantissimo!!)
- Eri in ferie?
- No, col salone in corso? Diciamo che ho dovuto dividermi tra lavoro di ufficio e problemi privati.
L’intimità, fin lì faticosamente e miseramente raggiunta, alla parola “privati” stride. Sento una frenata del mio orgoglio su una strada bagnata. Ma cerco di recuperare sull’imbecillità congenita che hanno gli uomini quando una donna gli ha dato confidenza. “io ti piaccio e fai così per tenermi a distanza” penso. E penso male.
La conferenza stampa è stata buona, ho detto quanto fossi onorato del progetto di traduzione e che in effetti una serata evento organizzata dalla dottoressa Roberta..Roberta? chisiricordailcognomeanchesemi attiri, sarebbe stata un “must” dico facendomi schifo e compassione da solo. L’inglese degli affari, l’ultima frontiera conosciuta di chi non ha un cazzo da dire. Alla fine quasi automaticamente tu hai deciso che forse valeva la pena parlare con me invece che tornare subito tra le tue scartoffie e mi hai seguito, ma io tutto avrei voluto tranne che arrivare alla porta.
- È andata bene no? Facciamo progressi, non è da tutti essere tradotto in inglese.
- No, il guaio è che tutto questo non riesco a godermelo come vorrei.
- Perché?
- Non lo so, pensavo che certe soddisfazioni sono come le cassate siciliane. Quelle che fanno a Palermo da dove vengo io.
- Scusa ma fatico a seguirti
- Vedi la cassata che si fa a Palermo è piena di canditi, glassa zuccherata e ricotta, è una bomba calorica, ma non è un dolce per egoisti. È conviviale. Se tu compri una cassata con l’intento di mangiartela da solo, alla prima fetta sei convinto di farcela, ma alla seconda diventa dura sopportare l’overdose di zucchero. La cassata è un dolce da finire insieme, da dividere. Il mio successo editoriale è così, troppo dolce per essere goduto da solo.
- Quindi sei solo?
Non chiedermelo di nuovo, penso in quel momento atroce, non farmi credere che oggi se ti dico “si sono solo” tu esci da quella porta con me.
- Si, sono solo
- Mi spiace, spero che tu possa trovare qualcuno con cui dividere quello che desideri
Ma perché il mio cuore è così? perché si mette a correre facendosi viaggi che hanno il sapore di vita insieme? Enrico sei un coglione. A te è piaciuta una donna una sera e ci hai costruito sopra una vita, il guaio è che mentre a intervalli regolari tu la pensavi, dietro ti sfuggivano altre cose, che non è che ti sono sfuggite per questo, ma magari avresti realizzato che mentre qualcuno ti dice addio è veramente addio. Che poi non è neanche colpa di Roberta che è rientrata a Torino e ha continuato la sua vita. Lasciandoti un ologramma a cui pensare nei momenti che metti in memoria più da cuore inutile.
- Si lo spero anche io, grazie.
Ho preso il tram e sono rientrato in albergo.
Ho pensato che davvero bisogna smetterla con una vita in cui l’istinto mi fa da navigatore. Perché non lo aggiorno più, vado alla cieca e ogni tanto mi dice di andare a destra in piena autostrada dove non si può nemmeno svoltare. E sbatto. Ho pensato che spesso si prova più dolore per qualcosa che non è ancora entrato nella tua vita che non per chi dopo tanta abitudine ti ha lasciato o ti ha dovuto lasciare. Mi sono seduto sul letto e i sono ricordato una scena di kung fu panda 2 che avevo visto con mio figlio nelle visite fortunatamente libere che ho con lui da quando ci siamo separati con mia moglie.
Quando Po ricerca il suo passato sente un forte dolore: una sacerdotessa gli dice mentre soffre: non resistere lasciala scorrere. Più o meno.
Io ho lasciato scorrere, ed è arrivato con me, dentro me un archivio di immagini, mio padre che non ho più e le sue sofferenze di uomo fragile, il mio rendermi conto troppo tardi di essere devastato dagli spifferi. Mi sono visto passare davanti amici che non ho afferrato e quelli che non mi hanno tenuto mentre precipitavo. Il tutto con quel sapore di andato. Marcio. In una parola banale. Finito. Mi sono sentito eccessivamente fuori posto. E ho ripensato a mio padre che per troppo amore non corrisposto verso mia madre che non riusciva a comprendere nelle sue fughe provò ad uccidersi. Tagliandosi da solo la gola con un pezzo di vetro.
La concatenazione di cause, quel principio matematico che si chiama “culo”, lo salvò, tramite tre fattori concomitanti. L’aver appena regalato un cellulare di seconda mano a me, l’aver bevuto troppo che spesso non ti dà forza di scopare, figurati di ucciderti e l’essere fondamentalmente un romantico codardo che era troppo attaccato alla vita. Lo trovai in una pozza di sangue. Lo portai al pronto soccorso e lo salvai. Non una parola il giorno dopo con mia madre, sua moglie. Impegnata a pensare intensamente ai cazzi suoi e a provare il suo vestito confezionato di principe azzurro su qualcun altro. Se io avessi voluto uccidermi non mi sarei ucciso con una scheggia di vetro. Io l’avrei fatto con un taglierino.
Se mi fossi sentito solo come lui, non avrei fatto tutto quel casino di cocci, schegge e sangue. Avrei steso un bel lenzuolo bianco e mi sarei tagliato la gola con un colpo secco, dato con uno strumento sottile ma tagliente, forse meglio le vene. Si, mi sarei tagliato le vene e mi sarei messo su un sudario improvvisato.

Però lo avrei fatto se fossi stato solo come lui. Io invece sono uno scrittore di successo. Penso mentre salgo il primo gradino del treno, avviato a una fulgida carriera, secondo gradino, ho il talento di perdere tutte le persone a cui tengo, terzo gradino, chissà se sono solo, avvio verso il posto prenotato dalla mia casa editrice, prima classe, con reti wireless, sedile reclinabile, lusso e contorno di management attivo di Iphone,pc e ipad al mio fianco fatto di gente vuota che parla di lavori che secondo me nemmeno esistono, io sono solo?, mi seggo, la gente intorno a me ha un referente, le cravatte si allentano, gli affari si concludono anche spostandosi, io sono solo, li guardo, io non gli appartengo sono fuori da questo coro, di gente pronta a sbranare, io scrivo perché sento. Ho un orecchio dell’anima. Mi siedo accanto a una donna che forse mi ha riconosciuto, bella, comincia a scorrere i file immagine di dove può avermi visto, nel frattempo sembra che io le piaccia, visto che mi accoglie alzando leggermente una gonna gessata e sorridendo, aspetta, io sono solo, cazzo.
Sei bella passeggera occasionale, ma ti romperesti il ciufolo di ascoltarmi. Io sono solo e il romanzo della mia vita non interessa. Nemmeno i capitoli delle storie d’amore che mi sono inventato nel mio cervello. Come con Roberta. La guardo. Lei si aggiusta la camicetta, seno giusto, sporge per farsi vedere ma non per promettere senza selezionare. Forse mi riconosce. Ma nemmeno lei sa quanto sia stato difficile tornare a casa per me. però ho capito una regola. Le donne sono tutte mamme, oppure sono insicure. Se tu piaci a loro, ma non le guardi, si chiedono subito cos’hanno che non va. Per tutto il viaggio la mia vicina avrà formulato ipotesi.
Solo, sognatore, scemo, non capisce, devo sbattergliela in faccia?, appena lasciato dalla fidanzata storica. Mi provava mille ruoli ma senza successo. Alla fine si è arresa e quasi per smentire le sue teorie mi ha dato il biglietto da visita, farcito di tutte le chiacchiere che abbiamo fatto, con me che stavo attento a non andare sul personale.
Avvocatessa, o avvocata, o avvocato chissà perchè non ci avevo pensato
- Magari ti chiamo per curare la mia separazione
- Magari anche per parlarne con calma, sai l’avvocato è un po’ un confessore
- Si, se ci rivediamo ti regalo il mio libro
- Ecco chi sei! Ho capito adesso che stupida. Aspetta..
- Ti chiamo (controllo biglietto da visita per non fare gaffe sul nome) Anna.
Io sono solo. Ma venderei un sacco se domani mi suicidassi. Le morti premature apportano talento. E leggenda.
È stato questo l’ultimo pensiero che ho avuto col taglierino e il mio lenzuolo uguale alla parete. Bianco, lui, bianca, lei.
Poi è finito tutto.
Già perché i cattivi pensieri basta poco per rimuoverli, basta sperare che un collasso se li porti via. Appena sceso dal treno ho ricevuto una telefonata, numero mai visto.
- Ciao sono Roberta
- …
- Sei uno che ha molto da imparare sulle donne, altrimenti ti succede che perdi tutto.
- …
- Prima regola, il numero di telefonino di una donna che ti piace lo devi sempre chiedere.
- …
- Seconda regola, se una donna accenna alla sua vita privata incasinata ti sta incoraggiando a invitarla da qualche parte.
- …
- Terza regola, le donne non fanno mai le cose casualmente, voi uomini siete così deficienti da crederci, io ti ho seguita e ti seguo da una vita, quella sera sapevo benissimo con chi stavo parlando, anche se di autori ed artisti che ci provavano con me ce n’erano tanti, io ero venuta col preciso scopo di conoscerti.
- Eh..
- Aspetta non ho finito, questa non è una regola ma una norma di sopravvivenza, se sto parlando non interrompermi, altrimenti perdo il filo, ma quel che è peggio, se io parlo ho qualcosa di sensato da dire, qualcosa che ho dentro, tu devi sicuramente solo far percepire la tua partecipazione e pensi che sia bello farlo facendomi sentire la tua voce ma non è così, quindi ascolta e basta.
- Posso respirare?
- Si, quello si, almeno so che sei al telefono. Per inciso, mi piace molto come scrivi, sai perché? Perché non sei un cazzone, tu descrivi veri fantasmi di vera gente, tu tiri fuori le tue paure e le lasci nude a sputtanarsi. O sei un pazzo o sei uno che sa quello che vuole, ma dal tuo sguardo, perennemente alla ricerca di un posto dove fare altri danni con quell’anima del cavolo che ti ritrovi e quel fare da bimbo, sei un pazzo.
- Quarta regola, a me..
- A te?
- A me i pazzi non piacciono, io sono riservata, ho il mio percorso, ho le mie scelte, mia figlia, le mie gioie e le mie delusioni.
- …
- Quinta regola: a fare così come ho fatto finora ho collezionato una delusione enorme. Pensavo di avere una famiglia modello, un amore classico e senza scossoni, invece ho capito che ho messo da parte i miei sogni e quello che volevo per qualcuno che mi ha fatto male. Mio marito.
- Ma adesso tu sei..?
- Non sono cazzi tuoi
- No, certo anzi..
- Lo sai qual è la parte che ti interessa? Che da domani saranno cazzi tuoi!!
- Perché da domani?
- Perché sto venendo da te, perché non ne posso più di non riuscire a capire come mai in così poco tempo mi hai devastata, perché devo vederti e vedere a casa tua tra le tue cose se quello che sei è quello che scrivi o sei solo un sordido commediante che si fa bello con le disgrazie proprie e altrui. Io i finti sensibili non li sopporto.
- A parte che sordido commediante, sa di commedia medievale..
- Io domani sono da te. Ma c’è un problema, io verrò lì, tu verrai a trovare me e io non so come andare avanti.
- Credi che i libri si scrivano con la fine già decisa?
- No?
- I miei no di certo, non sai quante volte ho cambiato il finale, oggi stesso credo mi sia successo.
- A domani..amore, non rispondermi, inserendo la parola “amore” anche tu; lo faresti per dovere, fammi capire domani quanto hai sperato che ti chiamassi. Se sei bravo come credo inventati adesso una soluzione letteraria per farmi capire quanto tieni a me.
- Ce l’ho il modo di farti capire quanto ci tengo ad averti con me
- Cosa?
- Quando vieni ti porto a mangiare la cassata, conosco una pasticceria dove la fanno ottima
- Già..la cassata si divide con chi ami..sei stato bravo..hai domato le parole e ti ci sei destreggiato..
E così adesso sono qui. Non so cosa mi è successo, ma ritornato a casa ho preso un cacciavite e un lenzuolo.
Ho sgomberato la stanza che non ho mai usato della mia mansarda. Perché ha un difetto.
Il tetto è basso.
Si può stare solo seduti o distesi.
Se ci metti un letto, devi già entrare quasi per coricarti.
A me la stanza piace proprio per questo. L’erotismo del doverti chinare, stringerti accanto alla persona che entra con te. Un preliminare logistico.
Da li c’è una finestra grande e triangolare, si vedono i tetti, il mare, l’orizzonte. Ogni tanto venivo qui dopo che la casa era rimasta vuota. E guardavo disteso le onde. A volte mi addormentavo con il blu negli occhi, ma forse erano solo lacrime e io faccio il poetico.
Ma la parete è tutta scrostata.
Difficile da riverniciare. Devi stare seduto, inginocchiato, disteso.
Ma non è impossibile, se riuscissi ad aprire la latta della vernice che ho appena comprato, rossa.
Il problema è che è così complicata che il cacciavite che era già marcio mi si è rotto in mano.
Le istruzioni dicono che è più semplice aprire con un taglierino, lungo e sottile, da mettere esattamente in un punto della latta.
Ho messo un lenzuolo a terra per non sporcare di vernice. Adesso provo ad aprire con un taglierino.
Voglio verniciare la parete di rosso. Di tutta la casa, sarà qui, dove non sono mai venuto, che voglio fare l’amore con te.
Il posto più dolce, ma anche più difficile da vivere da soli. Come la cassata, va diviso.
Penso che Roberta ha dei dubbi, li ho anche io. Ma le ipotesi sono biglietti annullabili di cui paghiamo la caparra, lo facciamo per le domande che mettiamo nei viaggi che non siamo convinti di fare. Ma non perché non ci attirano.
Perché abbiamo paura di non sapere come sarà l’arrivo.
Ma nessuno sa come è l’arrivo. Chi dice di saperlo dà per scontate le persone importanti e le perde. Come i quadri preziosi in soffitta, non guardi bene, qualcun altro si,e si gode un’opera d’arte con occhi che tu non hai saputo trovare.
Io non sono solo, sono stronzate che ogni tanto penso perché mi sembra di parlare una lingua diversa dagli altri.
Però so che adesso, dopo tanto, dopo tutto sono felice, come a natale quando porto mio figlio al cinema e mi sento bimbo anche io. Quella felicità a tempo, forse confinata, ma non per questo meno bella. So che sarà bello avere il dilemma di dove andarsene, cercare di capire se la mia città piace a Roberta, o se io andrò a vivere lì. So che queste sono domande che non devo farmi adesso, perché a me non importa se ci sarà convivenza, amore eterno, difficoltà o incompatibilità. So che quando due persone si vogliono sprigionano una energia iniziale. Che poi va ravvivata.
È che io non posso pensare di vivere con lei se prima non mi impossesso dei suoi spazi, se non sento i suoi odori e se non vedo come sono collocato nel suo mondo. Io so che una parte del mio mondo completamente nuova sto per donargliela domani. Io so che non si può decidere l’eternità di un sentimento, come non si può dire i primi giorni che sesso è un bambino appena concepito.
Per la cronaca: io non avrei nemmeno provato a suicidarmi, per la bellezza che la vita nasconde dietro tutto ciò che ci succede, sono così romanticamente codardo che non sarò io a decidere quando sarà il momento.
Di quello che mi è successo, quello che ho provato, ho deciso però di scrivere un libro. Il mio secondo libro.
Si intitola “mi lascio andare”. Vi piace?