Entra in camera. Trova la sua camicia ancora piegata sul letto. Ci passa accanto sfiorandola lentamente con un dito. Poi si ferma, torna indietro, la prende in mano e se la preme sul viso. Resta così per sempre, pensa. Va verso l’armadio per cercare una stampella e riporla. Nel fare questo si sforza di non guardare il telefono sul comodino. Sa che è lì.
Sa che non squillerà. Vorrebbe sentire quel suono ma si impone di pensare ad altro. L’armadio sembra rimandarle ancora il suo odore. Come una folata di vento che porta con se ricordi ed emozioni. Si blocca. Il sangue sembra gelarsi. Indietreggia atterrita, si sostiene al comò per non vacillare. Dietro le sue gambe sente la sponda del letto. Si lascia cadere, senza più forze, senza più energie, con la camicia ancora in mano.
Ora non si sente più bella come qualche mese prima né forte come allora, ora sente di non essere.
Senza rendersene conto si preme ancora la camicia sul viso, respira prima piano poi sempre con maggior vigore. Inspira suoni, immagini, parole, carezze, baci, abbracci, serate con amici, litigi, risate, vacanze, passione, sogni. Inspira emozioni e tempo trascorso insieme.
Respira la sua vita.
Guarda il telefono sul comodino. Sa che non squillerà. Non più ormai. Non ascolterà più la sua voce, le sue parole non saranno più carezze delicate nei momenti più bui.
Ancora non riesce a capire come sia successo. Troppe le informazioni che le sono sfuggite pur essendo davanti ai suoi occhi. Sensi di colpa a ingabbiare le lacrime. Perché se qualcosa si poteva fare stava solo a lei agire. Ma per agire bisogna sapere, avere la giusta sensibilità per carpire piccoli mutamenti di umore, frasi lasciate a metà, volti corrugati.
Ci sono parole mute che aspettano solo di essere urlate e urla spente che non verranno mai raccolte da nessuno. Lei non ha saputo ascoltare il silenzio e quel silenzio alla fine ha coperto i rumori, ha ammantato la vita come coltre di neve.
Guarda la camicia tra le sue mani. Le fa male, troppo male. La lancia a terra con rabbia e per la prima volta scoppia a piangere. Sono tutte le lacrime mai versate e non riesce a smettere. Piange senza vergognarsi, senza trattenersi, senza capire cosa ne sarà della sua vita ora, adesso.
Il telefono squilla, lei sobbalza, trema, un brivido la percuote. Prende in mano il cordless, è la sua amica. Stacca la spina. Spegne il cellulare. Basta. Vuole essere lasciata da sola, non vuole nessuno, non vuole pietà né sostegno vero o di facciata. Sola anche lei, per sempre.
Si sdraia sul letto con una lentezza che le fa paura. Sente di non essere più, sente di non sentire. Si difende dal dolore, forse sta impazzendo, forse sta rimuovendo, forse farà la stessa fine anche lei.
Si impone di ricordare anche piccole cose, apparentemente di nessuna importanza. Si sforza di immaginare cosa è successo e perché.
Lui era sempre stato sereno, allegro, ironico, brillante. Non lo aveva mai visto preoccupato se non in situazioni oggettivamente serie e gravi. Eppure… eppure ora che ci pensa negli ultimi tempi era diventato un altro. Un uomo più silenzioso, più cupo.
Lei troppo presa dalla sua carriera non aveva avuto il tempo per fermare le lancette e chiedergli cosa stesse succedendo. Non aveva avuto tempo per rendersi conto che qualcosa di grave stava scombussolando la vita dell’uomo che amava. Come salvarsi da questo senso di colpa?
Ci sono errori che non contemplano perdoni.
Ora dopo ora, giorni dopo giorni, mesi dopo mesi la vita sembrava scorrere come sempre.
Pura apparenza, maschere indossate sul palcoscenico della vita, l’ultimo applauso, si chiude il sipario.
Finché un giorno tornando verso casa trova un gran trambusto. La gente incuriosita, la polizia, l’ambulanza, qualcuno che guarda in alto. Lei segue quello sguardo. Occhi al cielo. Sul suo balcone c’è la polizia. Il respiro si ferma. Si fa largo tra la gente. Vede a terra un corpo coperto da un lenzuolo.
Di corsa apre la borsa, prende il cellulare tenuto silenzioso per le numerose riunioni. Quindici chiamate. No, non può essere. L’avevano cercata per avvertirla.
Sotto quella macchia bianca distesa sull’asfalto c’è lui. Sente le voci della gente. Dicono che si è buttato, che era depresso, che ha scavalcato la ringhiera…
Poi più nulla. Buio.
Adesso sa che stava male, che era caduto in una grave forma di depressione, che ne aveva parlato con il suo amico ma non con lei. E si rende conto che da un po’ di tempo non gli aveva più fatto una carezza, che non lo aveva più abbracciato o coccolato. Come è possibile?
Guarda il soffitto. Sono ricordi di una lei che prima non esisteva. Aveva a poco a poco allontanato le emozioni per far posto al suo lavoro, al successo, alla voglia di arrivare. Da quanto tempo non dava una carezza a qualcuno e soprattutto a lui? L’attesa di una risposta la fa cadere in una sorta di torpore agevolato degli ansiolitici che sta prendendo per sopportare quella perdita avvenuta in modo così tragico.
Chiude gli occhi mentre le immagini della donna dura e senza sentimenti continuano a danzarle nella mente. Forse si sta addormentando, non sa. Sente quasi la sua mano su di lei. Rivede tutte le parole che avrebbe voluto dire, i gesti che avrebbe voluto fare. Immagina lui mentre si lancia nel vuoto.
Sente il battito del cuore che pian piano rallenta, tutto diventa nebuloso. Vorrebbe alzarsi per riprendere la camicia e stringerla al suo petto. Ultimo disperato gesto di un’affettività da recuperare.
Si sente stanca, esausta, sfinita. Sola. Occhi chiusi.
Non sente applausi dal palcoscenico della sua vita, non ci sono spettatori pensa. Poi sente nitido il rumore del sipario che si chiude. Per sempre.
Foto di Adolfo Valente
l’intimo abbraccio di una malinconia vestita d’amore che entra in punta di piedi in quella stanza umida d’emozioni, fragile come un sogno che svanisce all’arrivo della luce.
Ottima narrazione, bravissima Stefy!