“Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo “grazie” a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta “
(Enzo Tortora, 20 febbraio 1987)
L’occasione è quella della messa in onda della miniserie dedicata al noto presentatore televisivo Enzo Tortora. L’occasione per riflettere un attimo su come in Italia sia nata una nuova professione, grazie alla quale, chi ha la “fortuna” di laurearsi in materia, ha un futuro assicurato e, a volte, un passato “ripulito”.
La laurea honoris causa, è quella che negli ultimi decenni viene rilasciata a coloro i quali, dopo una vita trascorsa a delinquere o comunque a fare affari con esponenti della criminalità organizzata, decidono di “saltare il fosso”. La ricetta è semplice: un inquirente incapace, un farabutto messo alle strette e prossimo all’arresto, qualche bravo avvocato e il gioco è fatto.
L’inquirente avvisa il prossimo laureando che di lì a poco potranno arrestarlo e lo convince a collaborare. Il futuro professionista consulta gli avvocati, fa due conticini, comprende che potrà ottenere solo benefici salvando ricchezze e libertà, dà gli esami.
La “tesina” sulla delazione – neppure molto importante e a volte non veritiera – consegna al laureando lo status di antimafioso. Al novello Sherlock Holmes, artefice di cotanta inchiesta, vengono tributati onori, mentre quello che potrebbe e dovrebbe essere solo un utile strumento d’indagine, diventa l’uomo simbolo della lotta alla mafia. Convegni, incontri, conferenze stampa. Ovunque viene invitato e riverito.
Nasce così l’ennesimo Mostro Sacro. Uno dei tanti. Uno dei tanti che, utilizzato da inquirenti e pubblici ministeri che inseguono i loro teoremi, partecipa alla realizzazione di quella “Giustizia spettacolo” che portò Tortora a diventare l’uomo simbolo della malagiustizia italiana.
Quella malagiustizia che portò il Tribunale di Napoli a condannare Enzo Tortora a 10 anni di carcere con l’accusa di essere un mercante di morte: un trafficante di cocaina. “Tortora -scrissero i giudici – ha dimo rato di essere un individuo estremamente pericoloso, riuscendo a nascondere per anni in maniera egregia le sue losche attività ed il suo vero volto, quello di un cinico mercante di morte”.
E dinanzi tali accuse, ad opera di assassini, camorristi e trafficanti di droga, a nulla valse neppure la relazione dei carabinieri che al processo confermarono che “non è emerso alcun collegamento fra il presentatore Enzo Tortora e gli elementi indicati”.
I più recenti fatti giudiziari dovrebbero farci riflettere su questi Mostri Sacri, nati dall’incapacità di chi anziché condurre le indagini, ha preferito stringere patti con questa nuova categoria di “uomini coraggiosi”, chiudendo gli occhi sul passato, ma a volte anche sul presente, di questi “paladini” della legalità coccolati dalle istituzioni, osannati e citati come esempio d’integrità morale e di coraggio.
Oggi, dopo qualche retromarcia che ha portato all’abolizione di inutili scorte che trascorrevano il loro tempo a giocare a calcio con il loro protetto; dopo aver dovuto prendere atto che le anime belle a volte tali non sono; dopo qualche sentenza che fa dubitare sulla bontà delle informazioni ricevute, tornano di grande attualità alcuni articoli scritti in passato, fra i quali quello di due anni fa che ripropongo integralmente:
I più recenti fatti narrati dalle cronache, portano a riflettere su quanto, in tempi non sospetti, pubblicammo sul vecchio blog.
Già allora manifestammo perplessità dinanzi al proliferare di “uomini coraggiosi”, pseudo “collaboratori di giustizia”, “paladini” osannati e riveriti, quasi avessero avuto un passato di uomini probi e coraggiosi, in perenne lotta contro quella cancrena che indichiamo con il nome di mafia.
Paladini, spesso sotto scorta e circondati da altri paladini.
Uomini delle istituzioni, costretti a fare quasi da camerieri – così vengono spesso trattati da questi nuovi “paladini” – a gente che ben altra dimora e trattamento meriterebbe.
In un paese come il nostro, purtroppo, scrivere di uomini e di cose, è ormai impossibile.
Assurde leggi tutelano la privacy e la “dignità” di delinquenti arricchiti grazie ad affari con la mafia e la politica.
Se a questo si aggiunge che loro sono tutelati, coccolati dalle istituzioni, osannati e portati come esempio d’integrità morale e di coraggio, non è difficile intuire che i delinquenti sono coloro che non condividono un concetto di legalità e coraggio che passa attraverso la collusione con la mafia e gli sporchi affari con un mondo politico, a sua volta colluso con la criminalità organizzata e non.
Perdonateci pertanto la nostra mancanza di coraggio nello scrivere i nomi di questi “nuovi eroi” della seconda repubblica, che in un territorio qual è quello nostro trovano terreno fertile per assurgere al ruolo di antimafiosi per eccellenza.
Il tutto con il compiacimento delle istituzioni e di chi della pseudo lotta alla mafia fa il proprio cavallo di battaglia politico.
Quando Leonardo Sciascia scrisse “I professionisti dell’antimafia”, pubblicato il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera, commise qualche errore, confondendo uomini che la mafia la combattevano veramente, con la figura del “professionista” che dell’antimafia ha fatto il suo vincente cavallo di battaglia. Ad onor del vero, il contesto e il momento storico avrebbero indotto chiunque ad inserire tra i professionisti dell’antimafia, uomini che invece a pieno titolo meritano di essere considerati eroi.
Eroi che hanno sacrificato – forse inutilmente – la loro vita, affinchè questo paese potesse tornare a vivere nella legalità.
Al di là di questa considerazione, e delle conclusioni che sono figlie del tempo, è doveroso ricordare come lo scrittore avesse tracciato con grande precisione e lungimiranza il profilo di nuovi “eroi” che sono figli di un sistema marcio che confonde il rame con l’oro e grazie al quale gli ultimi degli uomini, se non i quaraquaquà come amava definirli Sciascia, possono cingersi la fronte di allori.
Sciascia nel suo preambolo descrive la figura di questi nuovi eroi, laddove delinea il profilo “di persone dedite all’eroismo che non costa nulla e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono “eroi della sesta”.
Allo scrittore non sfuggì la possibilità che gli “eroi della sesta giornata”, in realtà non fossero semplicemente dei codardi che alla battaglia non avevano preso parte, ma che potessero anche essere dei farabutti che fino al giorno prima stavano dietro le barricate nemiche e che soltanto dopo aver visto la disfatta, avevano deciso di fare il “salto di qualità” passando, come spesso accade in questa nostra italietta, dalla parte di chi in quel momento è il più forte.
Inutile dire, che a ricostruire una perduta verginità, ben si presta il racconto di eroismi del sesto giorno.
Nasce così, a volte, la figura dell’eroe o, se preferite, del “coraggioso” al quale tutti son pronti a tributare onori che gli rendano imperitura fama.
Oggi più che mai quanto scritto da Sciascia a proposito di come l’antimafia possa rappresentare uno strumento di potere, torna ad essere di grande attualità.
La figura dei campieri di Mori, è oggi sostituita da personaggi che, dopo aver fatto affari con la mafia, messi alle strette perché a rischio di arresto o per timore di dover pagare uno sgarro, assurgono al ruolo di ex vittime che con grande coraggio si ribellano all’aguzzino e si trasformano nell’emblema della lotta alla mafia.
Non di rado accade che soggetti del genere continuino a mantenere rapporti e fare affari con “Cosa Nostra”.
E anche allorquando le vicende trovano risalto sulla stampa, la loro nuova veste di cavalieri senza macchia né paura, sembra uscirne immacolata.
Una spiegazione a tutto questo, possiamo trovarla nel fatto che difficilmente dopo aver creato “l’eroe”, coloro stessi che lo hanno creato potranno distruggerne l’immagine senza distruggere quella propria.
Questo è il grande limite di chi, nella lotta alla mafia, pur di utilizzare uno strumento utile, e forse a volte indispensabile, finisce con il generare il mostro.
Un’analogia la si potrebbe trovare con quelli che vengono comunemente definiti “pentiti di mafia”, se non fosse per il fatto che questi per entrare nel programma di protezione devono necessariamente, oltre a denunciare i delitti commessi tanto da loro quanto da altri, consegnare allo Stato i beni e gli averi illecitamente ottenuti grazie all’attività criminosa.
I professionisti dell’antimafia invece – con i loro bei colletti bianchi appena spuzzati di nefandezze e sangue – dopo essersi arricchiti grazie alle connivenze con quanto di meglio offre il panorama criminale, potranno continuare a godere dei loro beni e della recuperata rispettabilità.
Nessuno infatti andrà mai a controllare l’origine delle loro ricchezze, limitandosi semplicemente ad accettarne la collaborazione, quando non addirittura a tesserne le lodi per il coraggio mostrato nel tagliare il legame con il sistema mafioso.
Una bella differenza rispetto chi, per non sottostare alla mafia, ha messo in gioco la sua stessa vita.
Oggi leggiamo di vittime che denunciano i loro estorsori, che raccontano di ricatti, minacce, avvertimenti.
Ma anche di pentiti che parlano di “messa a posto” di imprese, di appalti pilotati, di omicidi. Vediamo questi uomini, tanto gli uni quanto gli altri, protetti, blindati.
Trasformati spesso i primi, in “eroi dell’antimafia”, salvo poi leggere di “eroi” che taglieggiavano le aziende, o di “eroi” che, seppur sotto tutela, non esitavano a chiedere “favori” a “Cosa Nostra”. Come non rimanere sconcertati dinanzi tutto questo?
C’è una gran bella differenza tra colui che paga o ha pagato il pizzo, per la paura di fare la fine di Gaetano Giordano (amico di famiglia di chi scrive), e coloro che invece hanno tratto benefici, vinto gare di appalto, ottenuto concessioni in maniera illegale o comunque poco trasparente e che in ultimo, forse, prendono le distanza da un sistema che li ha favoriti, denunciando la bassa manovalanza della mafia ed assurgendo al ruolo di eroi, di paladini, di simboli da proporre ed imitare.
Basterebbe ben poco per provare a capire fino a che punto si sia trattato di sottomissione e non di affari in comune. Sarebbe sufficiente verificare le possibilità economiche di un soggetto o di un’azienda, prima e dopo aver avuto determinati rapporti, per sincerarsi della qualità del rapporto stesso.
Lo stesso Sciascia, nel suo “II giorno della civetta”, ci narra di come il capitano dei carabinieri sentì l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi e vagheggiò un eccezionale potere che avrebbe consentito di estirpare il male per sempre.
Ma venutegli in mente le repressioni di Mori, il fascismo e ritrovata la misura delle proprie idee, si rese conto che anche da noi, come in America, bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale.
Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti.
E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (…), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso”.
Quanta verità nel racconto di Sciascia…
Ci vuole poi così tanto a stabilire l’origine delle ricchezze?
È così difficile distinguere le vittime dai carnefici?
O la “patente” va data a chiunque, in cambio di una delazione più o meno veritiera ne faccia richiesta?
Nelle more che qualcosa cambi – non si sa né come né ad opera di chi – un mondo datoriale e sindacale “”distratto”, continua a guardare solo agli affari propri…
Gian J. Morici