Ecco succede ancora.
Una mano, una mano forte, possente, virile, mi sale dalle viscere, veloce, veloce e inesorabile, inarrestabile, una mano aperta – no, non aperta, è già in potenza chiusa, già scopo, azione, fine, è presa, artiglio, morsa – mi afferra lo stomaco, qui, qui sotto il diaframma. Stringe. Stringe.
Il cuore mi balza in gola.
Non respiro. Non riesco a respirare.
Un letto. Mi serve un letto. Mi tremano le gambe.
Stendermi, devo stendermi e devo calmarmi.
Se mi calmo respiro.
Ma non mi calmo.
Iperventilo.
Iperventilo perché io sento che non respiro, che non passa l’aria, che la mano stringe, ma l’aria passa, lo so che passa, e so che tutto io dovrei fare meno che respirare, che respirare fitto, ma lo faccio, lo faccio e il cuore parte che sembra un treno. Le tempie. Le tempie pulsano, le gambe tremano, le braccia, non ce la faccio, questa volta non ce la faccio.
Chiudo gli occhi. Sudo.
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Mi sono alzata in tempo.
Prima che Silvia rientrasse, che mi trovasse qui, nel letto.
Ho più paura quando succede mentre sono sola, ma lo preferisco. Mi evito i suoi sguardi tesi che si accorgono che sta accadendo già dai primi istanti e che mi agitano, mi agitano di più di quello che mi agita. Che non si sa cos’è. Mi evito soprattutto questo, le domande. Le sue e quelle poi dei medici, dei cento e più controlli ai quali mi ha portata, ai quali mi riporta, ogni volta che succede e che succede che lei se ne accorge.
Menopausa, tiroide, stress, stanchezza, sì, sì, sì, sì, il cuore è a posto, sì, un po’ di pillole magari, un po’ di ormoni, pure, Dorme? Poco e male eh? Le gocce. Ecco un po’ di gocce per dormire. E’ importante dormire. Pure per l’ansia, le gocce certo, queste altre, non si confonda, lo scriva sopra magari, sì perché è ansia quella che ha, ansia che fa paura, che piega le gambe, che spezza il fiato, che si muove dentro, scava, rovista, agita. Perché si agita? Di che si preoccupa? Lei non ha niente di cui preoccuparsi, anzi, anzi, lo vede? C’è chi si preoccupa per lei. Lei deve solo star tranquilla. Stia tranquilla. E faccia solo quello che sente di fare, con calma, che nessuno le dà fretta. Che poi che c’è di così urgente? Niente è urgente. Il fuori dice? Che significa? Cose da fare? Cosa? No, le ripeto, che c’entra il fuori? E’ dentro, succede dentro, fuori non c’è niente, niente di cui temere, è solo ansia, nasce da dentro.
Niente è urgente.
Nessuno mi dà fretta.
Niente e nessuno. Di cui e per cui preoccuparmi. Per cui agitarmi. Niente e nessuno.
E fuori non c’è niente.
E se ci fosse invece?
Se. Ci fosse.
Nessuno se lo chiede questo. Nessuno me lo chiede.
Parte da dentro. E’ ansia.
Parte da dentro quella mano avida e insaziabile che viene a prendermi i pensieri coi respiri, che li rimesta fino a confonderli, fino a sedarmi, in questo sonno che non è sonno, è senza sogni, è meglio, mi dà pace.
Paura.
Sì è vero che mi fa paura quando succede. E forse è vero che questa paura, questa almeno, nasce dall’ansia. Che parte da dentro. Da tutte quelle cose che ci infilo dentro, una sull’altra, in fila, ben costipate, compattate, a farli pieni tutti i vuoti, pressate, fino a scoppiare. Da fuori le prendo però le cose. Inutili magari, stupide, banali, senza senso, le faccio io importanti. Mi servono. Mi servono di più dell’aria quando poi mi sembra che mi manca. Mi servono a riempire un vuoto così pieno – di niente, di nessuno – che solo quando è colmo da scoppiare non mi fa paura. Che è un’altra la paura. Quella con cui mi sveglio.
Quella con cui vado a dormire.
Quella con cui cammino per la strada, quando mi faccio forza ed esco.
Quella con cui respiro, mangio, bevo, vivo.
Depressione.
Depressione, solitudine, angoscia. Sensazione di inutilità. Facciamo un ciclo di terapia, una paio di sedute a settimana, sì individuali, poi le diraderemo non si preoccupi, magari ci aggiungiamo un gruppo, sì cosi si fa dei nuovi amici; lo so, lo so che lei ne ha di amici, ma nuovi, nuovi è meglio, nuovi interessi capisce, magari si trova un hobby, la danza, che ne dice? Ha mai pensato alla danza? Tanti lo fanno oggi, sì anche alla sua età, che c’entra? Mica deve fare l’acrobata! Ballo da sala, che so, non conosco i suoi gusti, oppure la cucina; sì immagino, immagino che è brava, ma ci sono corsi molto tagliati, che so, sul gourmet, sulla nouvelle cuisine, lo slow food, il cioccolato anche, il vino, non c’è che da scegliere. I soldi? I soldi! Sono un problema i soldi? La salute, la salute, quella è un problema. Comunque poi alla terapia affianchiamo anche i farmaci. Sì altri, che c’entra? Le gocce sono per dormire. Quelle no, quelle sono per l’ansia, anche quelle le continua a usare, per gli attacchi, per gli attacchi di panico, li avrà ancora, finché non rimuoviamo la causa, la depressione, che è ben più grave. No, no, ovviamente le pillole non la rimuovono, no, curano i sintomi, la terapia, la terapia neanche ma con quella, con quella capiremo cosa. Cioè non cosa, mi scusi. Capiremo come. Affrontare. La perdita.
Immagino.
Insomma non sono le parole del medico, o dello specialista, non ci sono andata, ma lo fanno, lo fanno tante, tanti anche, dopo un divorzio, una separazione magari, dopo un lutto anche. Dopo un lutto. Anche. Anche una separazione, un divorzio, lo sono, sono lutti.
E’ che ci sono lutti e lutti.
Un lutto è un buco, uno strappo, un salto nel buio, un buio che ti avvolge e ti imprigiona finché le maglie intorno non trovi come ripigliarle, magari farci un orlo, il buco resta, il vuoto, il niente, il nessuno pure, a volte, a volte no, i lembi si ricuciono, le fibre tese forse, la trama più sottile, fragile, oppure avanza della stoffa, scampoli di fortuna, per metterci una toppa, che si vede, si vede sempre, ma è anche bello che si veda, è giusto. Ci vuole tempo. Quanto dipende. A volte aiuto anche. “Ad. Affrontare. La perdita.”
Io la ho affrontata.
La ho affrontata per mesi e mesi, tutti i giorni.
Perché ci sono lutti che cominciano molto, molto prima. Che il buco si scava intorno a te ora dopo ora, con la speranza che ti benda gli occhi mentre tu li senti i piedi che sprofondano.
Attimi.
Attimi che lo accompagni in questo viaggio che non puoi seguirlo, non fino in fondo, e hai tutto il tempo per affrontarlo, per rifare l’orlo, per trovarlo pronto, per portarti avanti. Sembra quasi meglio. Dicono che lo sia. Forse lo è. Tanto che a un certo punto lo aspetti anche, che tutto finisca.
Attimi che siete in due a dividervi la rabbia, la fiducia, lo sconforto, l’illusione, i dubbi e le certezze, la volontà e l’affanno, il dolore e la paura soprattutto, diversi questi, questi non si dividono mai davvero. Che la morte non si divide e si muore sempre soli.
Attimi che siete soli. In certi posti assurdi di questo mondo che se ci pensi – e non ci pensi, non ci puoi pensare – sono tutti soli, fantasmi di speranze che camminano per strade e case, spuntate lì proprio per loro, per voi due anche, stazioni a tempo, a rotazione (a volte poi quei tempi sai coincidono, le facce poi le riconosci, fa quasi bene finché ritornano, finché ritornano, poi fa già male) intorno a corridoi al mattino, e camici bianchi e tubicini, e lunghe attese, lunghe, lontani, lontani da casa che più è lontano e più il miraggio è grande, e a volte è vero, a volte no, ma non ci si può arrendere, e. In questi attimi siete da soli. E.
Affronti la perdita in tutti quei mesi ma non affronti quell’ “e”.
E.
Se succede
adesso.
Ora, qui, per strada, per questa strada sconosciuta, piena di gente sconosciuta, in questo posto sconosciuto, in questo paese sconosciuto di tanti anni fa, che per telefonare cerca un posto, come lo cerco un posto, che per parlare, sì la so la lingua ma, che poi che faccio come faccio chi mi aiuta, oddio
ho
paura.
Ho paura. La butti dentro come ingoi le pillole, le gocce, quelle per l’ansia, per dormire – per la depressione no, non ci sei andata – come bevi l’acqua quando hai troppa sete, come ingoi i perché senza risposte, i sogni che si infrangono, che urlare non ha senso, lo impari, lo impari in certe strade, la butti dentro perché mentre sale, mentre sale la paura che ti piega è a te che lui si aggrappa, come alla speranza, se ci crede, se ci ha mai creduto, se non lo fa per te, magari finge di sperare, in quella strada dove siete soli ed è la sua paura quella che conta non la tua, la sua è più grave, più importante, non c’è spazio, non sarebbe giusto. La butti dentro.
Dentro.
Ma la paura è fuori.
E’ fuori. E anche se poi è memoria che non rimane niente di cui aver paura resta lì. Fuori che torna dentro appena ti distrai da tutte quelle cose che ti butti dentro fino a scoppiare, che arriva quella mano a stringerti la bocca dello stomaco che te ne viene un’altra di paura. Per l’ansia. Che è molto meglio. Non curarsi.
Fuori non c’è niente.
Niente e nessuno di cui preoccuparsi, per cui agitarsi.
Ma è molto meglio che ci sia.
Mi serve.