Stanotte ti ho sentito rientrare. Non è la prima volta.
Fingo. Preferisco lasciarti credere che sto dormendo tranquilla, che credo a tutte le bugie che mi racconti. La verità è che preferisco crederci io. Dopotutto non avrebbe senso chiederti, scontrarci, combattere, lottare. L’ho fatto, in passato. Ti ho seguito, pedinato, controllato, annusato, tartassato di domande, minacciato. Ti ho scoperto anche. E non una volta soltanto. E ho urlato, ti ho picchiato, ho pianto, ti ho lasciato. Ti ho lasciato anche. L’ho fatto. E anche questo non è successo una volta sola.
Ho provato a fare a meno di te, di noi, di quello che poi, a pensarci, noi non siamo e forse non siamo stati mai, ma non ci riesco.
Ti ho chiuso fuori dalla porta in piena notte, che tornavi da una delle tue riunioni fiume, di quelle dove non sai mai a che ora torni, se torni, che tante volte si fa l’alba e allora torni che io già non ci sono più.
Suppongo che succeda quando non hai dove lavarti.
Dove toglierti di dosso il sesso, il fumo, l’alcol, la vita che vai a viverti fuori da qui e da me. Sei rimasto lì ad implorarmi fino al mattino, o quasi. Quasi perché sotto la doccia la tua voce, finalmente, non potevo più sentirla. A ripensarci non so se mi rabbia o mi fa ridere il pensiero che i vicini siano stai lì, forzati insonni come noi, impassibili, né pietosi, che avrebbero potuto aprirti loro e confortarti, o almeno farti smettere di vomitare scuse e recitar preghiere e promesse, o ribellarsi ed invocare tregua, magari avessero chiamato anche la polizia. Quasi perché quando sono uscita per andare in ufficio eri seduto, steso che ho dovuto scavalcarti, sulle scale, e dormivi, la testa contro il muro, l’aria innocente, il sonno dei giusti. Ti lasciai una valigia sulla porta. Neanche una parola. Non c’eri al ritorno. Né io né tu rinunceremmo mai ad un giorno di lavoro per amore. Non lo abbiamo fatto quando ci amavamo che senso avrebbe farlo adesso?
Quando ci amavamo. Ogni tanto ci penso. Ed è quando ci penso che mi chiedo da che cosa io non so staccarmi. Ci amavamo? E’ amore quello che ti ho dato mentre ti legavo a me seguendo il canovaccio di chissà che sogno o film, romanzo o poesia, o il filo di un progetto che neanche sono certa fosse veramente il mio? E’ amore quello che mi hai dato mentre passo dopo passo tu ti costruivi il tuo di sogno o di progetto o di percorso, ammesso che davvero fosse il tuo, e dentro quel progetto c’ero, sicuro, ma non era necessario certo che fossi io, che una vale un’altra, insomma è un ruolo, e il fatto che io fossi lì in quel momento in fondo non è stata che una coincidenza, come tu per me, probabilmente, che era il momento giusto, l’età giusta e così via?
I figli. Ne volevamo due almeno. Tre sarebbe stato perfetto. Certo c’era da organizzarci, che il lavoro, la carriera, e anche il tempo, l’età, perché anche questo conta, che farli troppo tardi poi non è altrettanto bello, l’energia sai, la pazienza anche, non sono poche le ragioni. I figli non sono venuti. Fino ad ora almeno. Ora che nei nostri progetti avrebbero dovuto già esser grandi, abbastanza da permetterci di rifarci degli anni passati a crescerli, a sacrificare il tempo libero a fare i genitori, godendoci infine piacevoli e meritate vacanze e libertà da adulti non ancora troppo vecchi per prendere alla vita tutto quello che ancora ci doveva. Ora che sarebbe un bello scherzo se venissero, che in barba a tutto quello che accuratamente avevamo programmato, parlo dei tempi, dei momenti “giusti”, noi fingiamo di provarci ancora, che tanto se non son venuti fino adesso; a volte sembra più una scusa, intendo per giustificarci, che facciamo ancora sesso insomma, che avrebbe poco senso se tu lo cerchi fuori ed io, no, io no, io ci ho provato, le volte che io ti ho lasciato, e anche altre volte, e per vendetta pure, ma neanche in questo son capace, e questo è il peggio credo. Facciamo anche di più. Di provarci ancora. Un paio di mesi fa, che era allora poi l’ultima volta che abbiamo litigato, neanche mi ricordo più per cosa, che non so contarle, capelli, rossetto, il telefono che squilla, le ore al computer, la palestra, l’intimo sparito, gli impegni dell’ultima ora, ma stavolta in più me lo sentivo che era peggio, come una delle volte che io ti ho lasciato, quelle in cui hai trovato una un po’ più tosta, che ti ha preso, o stretto, o minacciato, o fatto pena, non importa, in percentuale capita, anche questo, in percentuale, un paio di mesi fa tu sei tornato a casa coi capelli bianchi, credo che è stato mentre aprivi quelle carte che io l’ho notato per la prima volta che ce li hai tutti bianchi ormai, e anche io ne ho tanti, sono andata in bagno dopo, per guardarmeli, ho iniziato a tingerli da allora, e hai messo sopra il tavolo e le hai aperte tutte quelle carte per l’adozione. E siamo stati lì a studiarcele tutta la notte. Anche le raccomandazioni. Le vie, per arrivarci prima. Prima di un tempo che comunque è già tardissimo ma anche questo forse noi cerchiamo di non vederlo mai. Le abbiamo anche preparate. E presentate. Può anche succedere che ci chiameranno.
Eri rimasto fuori la porta. No, te ne eri andato, al lavoro. Che non si perde un giorno di lavoro per amore. E poi la sera sei tornato con cento rose rosse. E io non ti ho aperto, ma te lo aspettavi che neanche la valigia avevi, che già l’avevi portata altrove, dove sei rimasto fino a che, tra rose e lacrime e bugie e promesse, le tue, e notti e giorni vuoti e uguali, che poi non sono mica tanto differenti da quando ci sei, e rabbia e noia, ed impotenza, quella, soprattutto, la mia, io non ti ho fatto entrare. E sei tornato.
Disperata. Ero disperata.
Ti ho fatto entrare perché non c’era altro, non trovavo altro, non esisteva e non conoscevo altro. Tu si però. Però tornavi.
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Io lo so che non dormi. O che se anche dormivi ti sei svegliata, mi hai sentito. Io ci provo a fare piano, ma sono maldestro, e sebbene in questa casa, che tu tieni perfetta e uguale da quasi venti anni, dovrei sapermi muovere a occhi chiusi, passo di gatto, come il tuo, urto sempre qualcosa, o inciampo, o a volte sono i pantaloni ad ingannarmi e dalle tasche finisce per cadermi qualche cosa. Sì lo so, hai messo un accidente lì all’ingresso, perché le svuoti lì le tasche, neanche me lo hai detto, così non mi svegli, hai detto che così non mi dimentico le cose, che quando le semino non me ne accorgo e poi non me le trovo, ma io me ne dimentico, del coso, dell’accidente, più delle cose. E poi se anche ci riesco, a non fare rumore, il letto fa rumore, le lenzuola, il mio respiro. Tu mi senti. Hai il sonno leggero. E soprattutto non dormi.
Vorrei che urlassi.
Ecco lo sto pensando e nello stesso istante in cui lo penso so che non ha senso.
Vorrei che urlassi perché anche stavolta è capitato che uno dei miei giochi è diventato più di quel che voglio, ammesso che io lo sappia quel che voglio e lo abbia mai saputo. Non so neanche se davvero ho mai voluto te. Avrebbe senso perché allora io dovrei combattere per farti restare, o per ritornare, non lo so, l’ultima volta tu te ne sei andata, invece di cacciarmi, lo preferisco forse, che sono più libero, cioè non devo andarmene a cercarmi un posto dove stare, che poi finisco per andare proprio dove tu non vuoi, e io meno di te, che sto cercando di scappare ed è difficile da solo, in questo non mi aiuti, con il tuo silenzio, resto a casa, neanche è facilissimo, alla fine si capisce che ci sto da solo, e gestire tante scuse, tante frottole, inventarne nuove, non è una passeggiata, poi me le dimentico, lo sai, ma in ogni caso è meglio, almeno resto a casa mia.
Dove vai tu non l’ho capito. Non vai da un altro. Ci hai provato a farmi intendere qualcosa qualche volta. Magari qualche cosa c’è davvero stata, non lo so, ma non ci credo. Non ne sei capace. E non lo so se questo mi dispiace o se non so in che posto dentro o fuori, sulla pelle – questa pelle che è la stessa che non so se è mia o delle mani che la toccano, o io appartengo a lei che cerca mani e mi porta con sé – mi fa bene.
A volte vorrei strapparmela, la pelle.
Quando torno in ufficio in piena notte per lavarmi via da dosso mani, baci, umori, e fumo, e alcol.
A volte.
Qualche volta.
Perché in realtà non riesco a farne a meno. Non della pelle ovviamente, quella serve, purtroppo. Dei suoi bisogni, dei miei, di questa vita.
E non ha neanche senso dirmi che in realtà io non ci ho mai provato, a farne a meno intendo. Con te sì. Di te ho provato a fare a meno. Non tanto quando mi hai cacciato, che lì era il bisogno di tornare a casa, alle mie cose, a spingere di più, che il resto, e anche di andarmene, di andarmene da un’altra casa che era solo un’altra casa, dove presto tutto si sarebbe ripetuto e allora tanto vale ripeterlo con te, non con un’altra, almeno noi ci conosciamo e abbiamo dei progetti. Non è che uno fa progetti cento volte nella vita. Noi li abbiamo fatti. Insomma erano i nostri no? Insomma ci ho provato a farne a meno, di te, e solo di te, che i nostri progetti la vita un po’ ce li ha cambiati, magari è anche colpa mia, che me lo merito, ma io non ci credo a queste cose, neanche tu, e non ci riesco. Io non ci riesco.
E neanche è vero.
Non mi manchi.
Non ti amo, non credo.
Boh. Amare sembra sia una cosa così grande che poi tutto cambia e non succede tutto quello che succede a me e quindi io non devo avere amato mai.
Tu mi ami?
Se ogni volta che io ti ferisco, perché ti ferisco, mi riprendi in casa, tu mi ami, almeno io dovrei pensare che è così. Eppure non lo sento. Lo sento più quando mi cacci forse, quando mi odii. Se mi odii. Magari ti ferisco per questo. Questa sarebbe una bella scusa, dovrei ricordarmela. O adesso dovrei farmi pena da solo, solo per averlo pensato. E se l’ho pensato l’ho fatto perché ogni volta che ci penso, a questa cosa dell’amore, cerco di distrarmi, di pensare ad altro. Mi ferisce. Peggio degli schiaffi che mi hai dato, non solo tu, lo immagini magari. Non mi ferisce che tu non mi abbia amato. O che io non abbia amato te. Magari noi ci amiamo, se ritorniamo sempre, e tutto il resto, questa cosa grande, immensa, unica, speciale è solo un’invenzione fatta per illudere, abbagliare, per spingerci a cercare, senza sosta, invano, a credere, a sperare. E a disperare. Per poi tornare indietro. Perché non c’è niente altro. Io non l’ho trovato.
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Quando mi sono alzata dormivi profondamente.
Tu non fingi.
Non quando dormi.
O forse mai, neanche quando ti costringo a mentire. Perché forse sono io che ti costringo a farlo, che è necessario.
Se smettessi di fingere, se lo accettassi, che non c’è altro, che non esiste, che io lo so che non esiste, potrei smettere di sperare. E disperare. E potrei dormire. Come te.