“Da quando c’è lui ho paura di morire. Ho paura di perdermi tutto quello che potremmo viverci insieme.”
Flavia aveva buttato giù questa frase mentre mi riaccompagnava a casa, dopo un’intensa giornata di lavoro di quelle nelle quali non hai il tempo neanche per scambiarti un sorriso.
Era un bel po’ che lavoravamo insieme io e lei, ed un bel po’ di più che ci conoscevamo. L’idea di metter su qualcosa di nostro, noi due insomma, era venuta proprio a lei, a Flavia, quando si era stancata di un lavoro che non aveva mai sentito suo. Da tempo la mia attività si era ridotta all’osso e spesso, nelle nostre serate insieme, avevo finito per raccontarle le mie ansie, la mia stanchezza, la delusione. Parlavamo raramente di queste cose, di lavoro, preferivamo raccontarci le “cose belle”, o anche le brutte, ma quelle che riguardavano le emozioni, la vita. Quanto poi la vita, per entrambe, fosse anche nel nostro lavoro, o almeno in quello cui ambivamo, e da questo in ogni caso e fortemente dipendesse, chissà perché non entrava mai nei nostri discorsi. Forse perché consideravamo sempre poco il tempo in cui raccontarci, confrontarci, svuotarci e riempirci, assaporare insieme la memoria di un bacio, di un mucchio di parole, di un odore rimasto dentro, che nel racconto, nella condivisione, riuscivamo a ripercorrere, a rivivere, a sentire finalmente vero e reale, in quello stesso attimo in cui smetteva di essere un segreto solo nostro.
Così quando Flavia se ne era venuta una sera con questa idea – mica tanto malvagia se non fosse stato che il settore in cui voleva muoversi era un già un po’ il mio ed era anche troppo inflazionato e che non mi aspettavo poi, in gran parte perché pensavo che forse, lei da sola, avrebbe potuto anche far meglio – ci prese forse più l’idea del tempo in più che avremo condiviso che tutto il resto, o l’euforia di un progetto nuovo, o le reali probabilità di realizzarlo… ci piacque, punto. Un po’ come tutte le cose che ci piaceva vivere. A pelle.
Ovviamente non era stata una passeggiata. All’inizio si era diviso quel poco che c’era che in due era diventato praticamente niente e avendo poco o nulla se non noi stesse e l’entusiasmo da investire qualunque idea per crescere, anche il banale “muoversi”, essere presenti dove le occasioni di farsi conoscere potevano moltiplicarsi, diventava un sogno quasi irraggiungibile. A volte, mentre la aspettavo, sotto il naso un altro No a tagliarci ancora aria, pensavo che davvero l’avevamo fatta grossa la cazzata a metterci insieme proprio noi, che avremmo rovinato tutto, l’amicizia, l’affetto, la fiducia, la stima, sarebbe tutto naufragato con quel nostro sogno, che ancora ci sforzavamo di chiamare progetto. Chissà quante volte lo ha pensato lei. E invece quando poi arrivava, io non lo so neanche se era lei o io e neanche conta, quella che da sole ci eravamo prefigurata una giornata di dissenso e malumore, insieme diventava solo un altro scoglio da superare, un’altra battaglia da vincere, che avremmo vinto insieme.
Prendemmo a costruirceli. I fantocci dei giorni bui li chiamavamo. Belle le idee che nascono insieme! Che mai nessuna forse c’era venuta fuori insieme come questa. Raccoglievamo carta straccia dai cestini, e pezze e balsa o polistirolo, quello che ci capitava sotto mano e di quei No ne facevamo fantocci da infilzare con matite, penne, pennelli, punte di compasso o stilettare con le lunghe righe da disegno o le mazze da scopa, a fine giornata. E il gioco vinceva sull’affanno. E l’ansia. Di cui non parlavamo, esattamente come prima. Per raccontarci cose belle o brutte anche, di quelle che riguardavano le emozioni, la vita.
Il tempo per queste cose, adesso che finalmente cominciavamo ad ingranare – anche troppo – dicevamo a volte, quando a ricordarci che la giornata era finita per davvero era l’alba del giorno dopo, mai la stanchezza, quella veniva dopo, era tornato ad essere quello di una volta, ce lo confessavamo con tristezza, nostalgia, che durante le ore di lavoro era davvero raro trovassimo la forza di vivere i racconti, e allora avevamo smesso, per non sprecarli, e li conservavamo per quelle rare sere come un tempo, in cui eravamo io e lei e basta, il lavoro fuori.
Così mi aveva spiazzato quella frase buttata lì, a pochi metri ormai da casa mia. Non che ci fosse un patto esplicito, no, a non parlare, se non nei tempi dedicati. Insomma poteva capitare che qualche cosa “urgente” saltasse fuori, anche nel momento e nel luogo meno opportuno. Magari mentre ridevamo a crepapelle sull’assurdità di una proposta che avevamo deciso nonostante tutto di presentare e che quella, proprio quella, era stata scelta e ora ci toccava portarla avanti, o mentre stringevamo i denti e i nervi tutti tesi per una consegna, e ballavamo e cantavamo a squarciagola a turno per mantenerci sveglie. O mentre ci svaccavamo sul divano di ritorno da un appuntamento, in “pausa brainstorming”. Solo che questa era pesante. Insomma seria. Non che non fosse capitato di parlare della morte. Forse più io a dire il vero. Che ero e sono la più crepuscolare. Ma se ne era parlato sempre en passant, con leggerezza. E con altrettanta leggerezza io e Flavia condividevamo l’idea che beh, quando arriva arriva, ce ne frega, poco cambia. Fa parte della vita.
Così insomma ora quella dichiarazione mi arrivava stonata.
Stonata.
E bellissima.
Bellissima a me.
A me che – ok, questo Flavia non l’ha mai saputo – io ci sono nata con la morte dentro. Che non lo so perché e per quando e da dove ti vengono queste cose ma, da quando mi ricordo di ricordare, io ho sentito sempre che da qui me ne sarei andata presto. E non mi è mai dispiaciuto più di tanto, anzi.
Anzi perché quando hai una cosa come questa dentro ogni giorno che apri gli occhi ti sembra che sei nato un’altra volta e di quel giorno in più ne hai voglia e da vendere.
E ogni giorno in più, che è un dono, sopra a quelli che sono passati, te li fa guardare tutti come gemme preziose, le più preziose, anche quelli più brutti.
A me che domani non c’è, e non conta. Anche se poi, strana la vita, per vivere io progetto. Cose per domani.
A me che non sogno oltre oggi.
A me che quando mi sono innamorata per davvero ho detto Il tempo di abbracciarlo e poi di quell’abbraccio voglio morire. Perché anche di questo, sempre en passant, si era parlato. Amore e Morte. E ci si rideva pure. Io di meno.
Crepuscolare.
Crepuscolare con davanti adesso il sole, gli occhi lucidi di gioia e di paura insieme di Flavia innamorata che ha sete solo di domani. E delle mille cose nuove dei mille e mille e mille giorni che verranno.
“Perché dovresti morire adesso?” Dio, una cosa più banale di questa non la potevo dire!
“Boh, che ne so, ho un’ unghia incarnita, potrebbe andarmi in cancrena. Mi taglierebbero un gamba e tutto sarebbe diverso e io con una gamba sola non ci vorrei vivere e allora morirei.”
Dopo i fantocci dei giorni bui che era una idea che ci era nata insieme, che mica è una cosa che succede facile, che si deve esser matte almeno allo stesso modo perché accada, quando prendemmo il primo lavoro serio l’idea che spense l’imbarazzo degli affanni, delle ansie, di cui non parlavamo venne a me. Su una delle pareti bianche dell’unica grande stanza in cui lavoravamo, mangiavamo, giocavamo, ballavamo, parlavamo e più in là, talvolta, ci saremmo addormentate, che avevo voluto bianche perché il bianco per me è sempre stato luce e oggi, adesso, da riempire, con il pennello grande, da imbianchino, quello che ne era rimasto dopo i lavori che c’eravamo fatti da noi per risparmiare, tracciai una lunga striscia verticale col verde orribile che ci era avanzato dalla tinteggiatura del piccolo balcone, quello dove fumavamo, estate e inverno, per fumare meno.
Flavia restò a guardarmi, in silenzio.
Il giorno dopo portò con sé cinque barattoloni di pittura ad acqua. “Bianco compreso”, disse, “per miscelare. Dobbiamo tenerci pronte per i prossimi lavori. E questo verde è da schifo.”
Ecco non avevamo paura di morire insieme allora. Ma è stata Flavia a prendere i barattoli che oggi hanno fatto di questa grande stanza, che è ancora quella, un pazzo arcobaleno di righe, punti, cerchi, mani, piedi, su quel che resta di un fondo bianco. Flavia che aveva più paura.
Ed è stata Flavia, che ha paura oggi, a tirar fuori una battuta sopra l’imbarazzo e il freddo e forse anche l’invidia di quelle sue braccia che cercano il domani.
Oggi mentre aspettavo Flavia me la sono cercata questa mia paura. Del domani, di sperare. Di morire. Io la voglio. E tu non mi hai abbracciata e io non sono morta. O io non ti ho abbracciato. Per non morire.
Ti tenderò le braccia domani, ad abbracciarti. E comprerò un colore per ogni abbraccio che ci sarà dopo. Bianco compreso, per miscelare. Anche se tu non mi abbraccerai.