“Cosa?”
“La mia cicatrice, quando sarà pronta?”
“Quando sarà guarita vuoi dire? Avrà la stessa forma del taglio, magari sarà un po’ più sottile, ma andrà scomparendo col tempo. E poi non è così grande.”
“Ma io non voglio che scompaia. E’ stato un giorno importante. E anche se adesso fa male io ho vinto la gara capisci? Sarà lei a raccontarlo, come con un disegno che resta per sempre. Come quel grande sorriso sulla pancia di mamma, che racconta di me. Come quel mezzo cuore sulla tua pancia, con l’altra metà sulla pancia dello zio. E non c’entra il taglio, io non ci credo. Altrimenti potrebbero raccontare delle bugie, i disegni lo fanno se vuoi.”
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Devo essere morto.
Devo essere morto se mi vedo bambino in questo prato infinito e ti corro incontro a braccia aperte e tu mi sorridi e sei uguale alle foto sul piano di nonna. E dovrei dispiacermi perché non volevo morire ma non ti ho mai conosciuto e mi sei sempre mancato. E poi hai tra le mani quell’aquilone. Quello blu con i nastri di tutti i colori appena comprato che mamma non voleva lasciarmi perché il vento era forte e io troppo piccolo, ma alla fine me la dava sempre vinta quando giocavamo, che poi l’aquilone era mio, e il vento me lo strappò dalle mani. Girammo tutti i negozi del paese a cercarne uno uguale ma non ce ne erano più. Così ora tu me lo stai portando che devi averlo preso che mi hai visto piangere.
Invece mentre io mi avvicino e felice ti tendo le mani tu le tendi in avanti a fermarmi e non stai sorridendo sei serio, mi scacci.
Devo essere morto.
Devo essere morto se ho tubi dovunque e non ho dolore e non sento il respiro e sono nudo e non ho freddo, né caldo, né fame, né sete. Ma se è questa la morte quella di prima cos’era coi prati e mio nonno e i sorrisi e le mani e il mio primo aquilone? Non credo che i morti hanno ricordi. Non credo neanche che i morti esistono a dirla tutta. Quindi non dovevo essere morto neanche quando ero morto prima. Devo essere vivo. Magari tra un poco mi sveglio ed è tutto finito.
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“Non sei obbligato a farlo.”
Gli occhi cerchiati di nero di rimmel impastato di lacrime e sonno perduto mia madre sa che non posso crederle. Sa che non c’è nessun obbligo, ma anche nessuna paura, nessuna fuga, nessuna opzione. Avrei potuto non saperlo, certo. D’altra parte non ho mai potuto sapere niente, che io non esisto. E invece stavolta mio padre si è ricordato di me. Di me in questo mondo, nel mondo reale, fuori da un gioco segreto che ha giocato per anni.
Mio fratello, suo figlio sta morendo. E né sua madre, che non è la mia, né lui, né mia sorella possono aiutarlo. Io forse. Io che non esisto. Io che li ho guardati fantasma da lontano sognando di poterli abbracciare. Sognando un fratello con cui giocare, con cui fare a botte, con cui fumare di nascosto, con cui fare tardi la sera e dividerci scenate e rimproveri. Quando ero piccolo e non sapevo di averne fratelli e come tutti i bambini lo chiedevo insistentemente a mia madre lei diceva Avrai dei cugini, che è anche meglio; coi fratelli si litiga, per gli spazi, per i giochi, per l’affetto, per tutto; lo vedi com’è per i tuoi amici che i fratelli ce li hanno e io anche li ho avuti e ce li ho. E mi convinceva. A volte per un giorno, a volte per un mese, a volte per un anno. Anche i miei amici mi convincevano e più crescevamo più ci riuscivano: che resti a casa perché c’è tuo fratello, che spegni la tv che deve dormire, che alzati prima che a scuola viene con te, e la stanza in due, il computer in due, il motorino, le sere Lo porti con te, Siete pazzi, Allora non esci, Ma cristo non posso! E allora meglio gli amici. Che te li scegli. Che se non hai voglia stai solo. Che gli parli di tutto e se stai male magari li abbracci, ti abbracciano. Chi lo sa se i fratelli si abbracciano. Sì magari da piccoli sì, poi crescono. Crescono e urlano o non si salutano neanche. O si trovano giusto per le feste. E finiscono per litigare.
Poi un giorno l’ho visto. Sì ok, sapevo della sua esistenza, di mia “sorella” anche, lo sapevo. Me lo avevano detto, che ero ancora piccolo. Me lo avevano detto e basta e tu che sei piccolo capisci anche che fa parte di quelle cose che se ne parla una volta e non se parla più, come di tutte le altre cose che sembra normale non si debba parlarne. Sembra normale perché è così e basta e che ti trovi a pensarle da solo chiuso nella tua stanza che vorresti urlare e non lo puoi fare che sei figlio e sei uomo e sei padre perché ci sei solo tu è un’idea che deve essere nata con te o quando l’hai vista davvero negli occhi tua madre, magari più tardi, in spiaggia con un aquilone. E lui. E lui che a volte vorresti ammazzarlo ma che poi dopo cinque minuti che sta lì con te e vorresti alzarti ed andartene che ti chiedi chi sia lui che gioca con altri e non resta con te, che li accompagna a scuola, li mette nel letto, li veste magari, li aiuta a studiare, ma adesso ti guarda e sei come lui e vuoi esserlo sempre di più. Mio padre. Quel giorno aspettava Daniele. E l’ho visto. E avrei dato ogni stupida maledetta cosa del mondo per abbracciarlo, per dirgli sei mio fratello.
Ora Daniele sta morendo. E che io non posso esistere non conta più niente se posso salvarlo. Ora esisto. Perché se esisto lui sarà mio fratello. Sia se ce la caviamo, sia se crepiamo insieme. Non c’è scelta.
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In ospedale ci sono andato con mio padre. Lui voleva che mamma venisse con noi ma io ho preferito che restasse a casa. Le avrei parlato io dopo, noi due, da soli, come era sempre stato.
Il medico è stato sincero. Ha anche detto che non sempre le cose vanno come devono andare. E che non ero obbligato. Le stesse parole che il giorno dopo avrebbe usato mia madre.
Non sono obbligato infatti. Lo voglio. Perché non posso non volerlo.
Così abbiamo fatto tutti gli accertamenti. Subito che il tempo è prezioso.
Daniele era lì già da un po’. Non ho voluto vederlo.
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L’ho visto poi. L’ho visto fuori la sala operatoria, dove aspettava il suo turno. O aspettava di vedermi. Non mi aveva mai visto. E c’era anche lei, mia sorella. Piangeva. Quindi i fratelli piangono. Che piangesse per me, per lui, o per tutto quello che in pochi giorni le era piombato addosso, ci era piombato addosso, non ha molta importanza. Piangeva. Ed era bella. E poi era strano. Era strano che erano tutti lì, neanche fosse una festa comandata nelle quali alla fine o non ci si saluta o si litiga e invece stavano lì ad abbracciarsi. Anche mia madre e mio padre. Anche mio padre e sua madre. Anche mia madre e i suoi fratelli. Quindi i fratelli si abbracciano.
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Ho sorriso a mia figlia. E’ stata davvero coraggiosa e non ha neanche pianto mentre le ricucivano il taglio sul ginocchio.
E ha ragione. Ho un mezzo cuore sulla pancia e un pezzo del mio fegato ce l’ha mio fratello. Insieme all’altra metà del cuore. Le cicatrici prendono la forma del loro racconto.
Ho tirato su i pantaloni e ho fatto vedere ad Ilaria una piccola cicatrice che ha quasi tutti i miei anni.
“E’ una V!”
“Sì. Ho vinto una gara una volta. Di coraggio. Bisognava arrivare in fondo ad una lunga discesa senza smontare dallo skateboard. Ce l’ho fatta, ma dopo sono caduto. Credo che la tua cicatrice sarà come questa. Quando sarà pronta.”