Sono allergica alle fragole.
Non da sempre, purtroppo. Si dice che quando ci nasci con un qualche cosa, che sia un’intolleranza, una allergia, un difetto, o peggio anche qualcosa di più grave, come il non sentire, il non vedere, si soffra di meno. La mancanza di ciò che non hai o non puoi avere. Non lo so se è così. A conti fatti dovrei ritenermi fortunata. Di non saperlo intendo. O di aver dovuto lottare solo con piccole allergie e intolleranze. Come per le castagne. Quella ce l’ho da bambina. Dio! Quante volte ho comprato le caldarroste per strada attirata da quell’irresistibile odore! Me le giravo avida tra le mani, poco importava che mi bruciassero le dita fino a voler urlare. Restavo a guardarle. A inventarmene il sapore o a ricercarmelo in qualche angolo dimenticato della mente. Le fragole no. Alle fragole non si può resistere. Io non posso. Ci ho provato. Ci provo ogni volta. Mi dico che posso accontentarmi di star lì a guardarle incantata. Quando sono rinchiuse in quei miseri contenitori di plastica, sì miseri, perché, sebbene la trasparenza riesca a volte ad esaltarne la luminosa voluttà, non meritano una simile asettica prigione. Mi dico che posso saziarmi con gli occhi. Ma già le dita ne accarezzano la superficie lanosa. Perché mi piace anche toccarle. E se sono fresche anche il solo toccarle attiva le prime reazioni. Quando è stagione e si vendono nei cesti nei negozi di frutta e per la strada faccio il pieno di quella magia di colori e profumi che si corrispondono cercando di far passare in qualche modo per la ragione, che intanto già perde colpi, che quel pizzicorino che dal naso mi prende alla testa altro non è che un chiaro segnale – una precisa corrispondenza – di ciò che non posso e non devo fare. Finché cedo. Puntualmente. E torno a casa col frutto proibito. Cui non concedo nessun rito. Ah certo lo meriterebbe! Ben più delle castagne! Ma, come se “eliminarle” alla velocità della luce potesse in qualche modo aiutarmi ad ingannare la coscienza, spesso non faccio in tempo neanche a condirle. Neanche a dar pace alla pelle che desidera accarezzarle. E dopo sto male. Ma il dopo non conta. Come non conta che il medico abbia detto e ripetuto che se provassi a ri-abituarmici poco per volta probabilmente non rischierei di finire all’ospedale. Non posso. Io non posso frenarmi. Fosse anche quel momento in cui ne godo il sapore negato l’ultima cosa che voglio sentire.
L’odore dell’erba bagnata. Dei prati umidi di pioggia o di rugiada. Adoro stendermi, no, sprofondarmi, letteralmente crollare nel fresco profumo di un prato. Che ti entra sotto la pelle attraverso le maglie i pantaloni le calze. Attraverso i pori. Che ti arriva alla gola d’un tratto, come lo stessi davvero mangiando, l’odore. Amo ogni cosa che faccio. Sempre. E se non la amo istintivamente imparo a trovarci qualcosa da amare. Ma adoro evidentemente tutto ciò che non posso fare. Perché si nasce o si diventa allergici anche agli odori. Anche all’odore, al sapore dei prati bagnati.
E’ inverno fuori e fa freddo. E al limite dovrei stare qui chiusa a pensare alla neve che forse amo più del mare. O al vento. Che soffia forte tra gli alberi e le case e pulisce il cielo riempiendolo di bianche stelle. Anche le notti di inverno hanno un buono odore. Diverso dalle notti d’estate o d’autunno. O di primavera. Hanno un odore pulito. E se le respiri in bocca ti arriva un sapore di nuovo, pungente, tenace come le idee. Come la vita che ti trattiene. Invece la memoria si annusa dentro odori e sapori e desideri proibiti. O perduti. Odori sapori e desideri che fanno male. La memoria si annusa dentro la gioia di brevi momenti. E tutto il male di dopo non pesa abbastanza.
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Sembra che fuori di qui sia Natale.
Anche il Natale ha odori e sapori. Troppi. Così tanti da confondersi.
Quando ero bambina il Natale profumava di incenso. Quello di resina, in grani. Quando sei bambina impari in fretta a dare un nome alle cose che ti piacciono. Alle cose che ami. E vuoi che le cose abbiano un solo nome. Così il Natale sapeva di incenso e basta. Anche se il fumo bruciava un po’ agli occhi. E anche alla gola.
Anche le parole hanno un sapore. Mentre le ascolti. Mentre ti piovono addosso o ti accarezzano piano, mentre ti invadono o ti schiaffeggiano. Mentre le leggi, e i tuoi sensi tutti e gli occhi e la pelle e le ossa divorano chilometri di vuoto per poggiarsi lì, in silenzio, sulle mani di chi le scrive, sulle sue spalle, sulle sue labbra.
Le tue parole hanno il sapore dei tuoi sorrisi. O dei tuoi occhi stanchi. Di notti di odori e sapori confusi intorno a rubarci i ricordi aggrappati agli occhi. Hanno il sapore dei tuoi sorrisi mentre sorrido, mentre piango, mentre ricordo, mentre dimentico. Mentre cambio posto alle cose per imparare a confondermi. Mentre divoro voracemente il freddo gelido del silenzio e delle pagine bianche, delle parole non dette, del sapore disperso nel vento. Mentre cerco il male. Il dolore a sfiancare la memoria delle cose che non posso avere. E non è abbastanza.
Caldarroste, fragole e prati. Tutti i baci non dati.
Ho scavato in fondo a un cassetto che non aprivo da anni.
In uno scampolo di giornale accartocciato e ingiallito dal tempo, nascosto in un angolo, dietro mille ricordi dai mille sapori che non sanno di niente, ho trovato dei grani di incenso.
Tu resti.
Con le castagne, le fragole e i prati.
Ma domani il Natale profuma di incenso.