Ognuno di loro correva. Al via, tutti correvano. Mentre si allontanavano non distinguevo più, nel verde, che le loro gambe saltellanti, i capelli con colori a contrasto, i vestiti approssimativi raccattati ai mercati dalle loro madri, e sentivo, sentivo.
Per questo, non c’è che da essere vivi. Una volta in fondo al campo qualcuno li sollecitava a tornare indietro, qualcuno inventava un motivo: torniamo alla tana, siamo conigli. E indietro saltellavano dei conigli infiammati, con le molle nelle gambe.
Brusco cambio di scena. Mentre me ne tornavo a casa e ricordavo di dover fare la spesa. Senza nessuna energia e con una gran fame da pranzo saltato. Senza voce, per aver incitato quella specie di gruppo scavezzacollo. Allora sorpasso, allungo verso il supermarket giallo e verde, un obbrobrio in mezzo a lunghe gettate di cemento. Entro nella confusione, nelle file di brutte mercanzie, colorate male, accostate peggio. C’è la musica e a volte il radiogiornale. Qualche volta sparano dalla radio delle domande essenziali, sono i “deegiango”così li chiamo: tipo, uscirà dal carcere la ragazzina che ha sterminato la famiglia, ora parla tre lingue e ha tre lauree. Intanto non trovo le bottiglie di pomodoro, le hanno spostate non so dove, ora ci sono al loro posto file di Babbi Natale, almeno l’eleganza di averci lasciato qualcosa di rosso. Vicino ai biscotti si allunga la fila dei plaid che vengono dalla Cina, e i box dei calzini da uomo, neri marroni o a righe fucsia. Al banco del pane ho il numero settantasette, e stanno servendo il numero cinquantacinque. Ho messo a letto i ragazzini, ho richiamato una assistente sociale, ho discusso con un gruppo di donne che preferiscono occupare uno spazio con la macchina che distribuisce caffè, te, cioccolato finto, latte sintetico e merendine cancerogene, invece di sgombrare una stanza per farci il paesaggio sonoro. Immagino di aprire la porta e dentro non ci sono che carte colorate, leggere, fruscianti. Poi sbatto gli occhi e ho davanti una decina di donne decise ad ottenere una grumosa macchina per il caffè. Vorrei lasciarmi andare, venire investita da tutti i carrelli del supermercato e sorvolare come anima leggera la cupola del magazzino, vedere dall’alto il quartiere deserto, sentire qualche preghiera che sale dalla testa di qualcuno fermo al semaforo, e poi partire verso l’alto. Raccolgo il rotolo di carta casa che è caduto dal mio carrellino a braccio lungo. Ora cerco il vino.
Ora cerco il vino. Nella telefonata mi si diceva che il piccolo è all’ospedale e che non tornerà. Non tornerà. Oggi non poteva saltare nel giardino, oggi non poteva lanciarsi dallo scivolo. Non poteva. Non ci capisco niente di vini, devono essere DI O CI doc..rosso, lo si vuole rosso, raccolgo una bottiglia rubina e la adagio nel canecarrello. Arf, penso, cuccia..Mi passo una mano sugli occhi. Mandano una canzone, che si annuncia con i soliti accordi. Poi parte Tiziano Ferro, e poi Liga, L’amore conta..l’amore conta. Raglia un po’ ma va bene..Un padre oggi piangeva. Davanti al figlio. Gli scendevano le lacrime perché doveva lasciarlo a scuola. Davanti al bambino. Poi abbiamo chiuso la porta. E il bambino ha preso una spazzola dalla toletta delle bambole e l’ha fiondata in testa ad un altro ragazzino. Se chiudo gli occhi immagino di aprire la porta e dentro osserverò il silenzio, e cammineremo tra veli di organza, a piedi nudi, e il suono impercettibile della stoffa sarà la musica. Ma c’è la macchina del caffè. Allora diremo al docente che la causa della mancata attuazione del paesaggio sonoro è la macchina del caffè. E tutta una valanga di “non è vero”…Non è vero che il bambino non tornerà più a scuola, non è vero che il padre che piangeva offenderà la vita di suo figlio, non è vero che sono stanca, che ho ragione, per la miseria, ho ragione, ma nessuno lo dirà. Che il vino mi fa schifo, che queste palle di natale verdi fosforescenti fanno schifo, che tre lauree e tre lingue non cancelleranno niente nella vita di un pluriomicida. Non è vero.
Che sto ferma in mezzo agli scaffali da un quarto d’ora. L’amore conta.