Quando il campo era deserto, al mattino, Moira rimaneva ferma nella piazzola a godersi il freddo dell’alba. Se c’era vento rincorreva i brandelli delle buste di plastica che occupavano le zone tra le baracche e le roulotte. Scivolava via dalla suo letto molto presto, andava a prendere l’acqua alla fontanella col bidone bianco e un secchio.
Il campo era desolante, variopinto di rifiuti, ma il cielo d’inverno lo sovrastava protettivo. Moira si fermava vicino alla sua baracca, aspirava l’aria gelida e poi entrava in casa, con il suo secchio e tirava giù insieme alla madre i catini per lavare i piccoli, e poi lavarsi loro. Uscivano tirandosi dietro uno scheletro di carrello della spesa, due lunghi bastoni, delle funi. Sulla stufa a gas avevano scaldato il latte, e ci avevano inzuppato le merendine che al supermercato qualcuno gli aveva offerto. Bisognava camminare verso il quartiere, verso la scuola ancora al buio, le palazzine assonnate, dove piano piano si andavano illuminando le finestre, e Moira guardava in su, verso le cucine calde, con i vetri appannati. Si fermavano ai primi secchioni della spazzatura. La madre trovava sempre qualcosa da incastrare nell’apertura, così da cercare in santa pace. Ogni tanto tirava fuori scarpe, o bottiglie, o giocattoli, a volte radio. Infilavano tutto nel sacco di plastica nera che assicuravano al carrello e poi proseguivano. Intanto il cielo annunciava il giorno, limpido, assolato.
Dai portoni uscivano i bambini con le cartelle, le madri, qualche vecchio che accompagnava il nipotino, i ragazzi con gli zaini. Lungo la strada passava qualche autobus. Davanti a loro, un padre ripassava la lezione al figlio, e rideva, si guardavano e ridevano. Moira cercò di superarli e la madre la seguì. La strada era lunga, una unica grande via che tagliava in due quelli che erano ancora campi estesi, con qualche palazzo sparso, o gruppi di palazzine, e lontano le torri delle case popolari, grigie, fumose contro il cielo. Moira camminava veloce a testa bassa, trascinando il carrello. La madre teneva il bastone e il suo passo era pratico ma indolente. Di secchione in secchione, il giorno era fatto, e Moira aveva fame. Non avevano raccolto molto, in compenso avevano creato un bel po’ di scompiglio davanti ai recipienti e qualcuno distoglieva lo sguardo da loro, qualcuno le fissava con intenzione. Moira scambiò un’occhiata con un ragazzino che andava a scuola, infagottato in un giubbotto con il cappuccio. Sentì freddo, nonostante le calze di lana, la gonna un po’ lunga, e un giubbottino di pelo che pareva pecora infangata. Arrivò il mezzogiorno e il caldo del sole, l’aria ferma. Moira e la madre si andarono ad appostare all’entrata del supermercato. Lei doveva mettersi alle costole di qualche donna col carrello e convincerla a farsi aiutare a sistemare i sacchetti nel portabagagli. E soprattutto a guadagnare il carrello per recuperare la moneta. Le dicevano no, no. Sua madre aspettava ansiosamente le signore con le quali era riuscita a creare una consuetudine. A volte compravano per lei una bottiglia di latte, o dei biscotti, o i pannolini per i più piccoli. Sentiva sua madre dire: bella, bella, mentre quelle affrettavano il passo. Quando, verso le due del pomeriggio, i clienti scarseggiavano, Moira poteva girare per il supermercato e guardare tra gli scaffali. I quaderni con le copertine con i fiori, o i cuori di hello kitty, le fila di matite colorate negli astucci di metallo o di cartone, e di nascosto ci passava le mani sopra, e sentiva l’odore di grafite, che le ricordava la scuola dove non andava più. O nel reparto della biancheria femminile, dove c’erano i reggipetto col pizzo sintetico, colorati, che avrebbe voluto misurare, per vedere come si è da donne. Poi tornava a cercare sua madre, e la trovava al sole che intrecciava i capelli lunghi, e allora lei le carezzava la testa, le diceva ti pettino io. Avrebbe voluto rannicchiarsi tra le sue braccia, ma non riusciva a far coincidere l’idea del reggipetto con quella delle braccia materne e quindi, mentre la pettinava, le tirava i capelli, per sentirsi sgridare.
Alle quattro il piazzale era di nuovo affollato, suo padre arrivava a ritirare i soldi che avevano ammucchiato e il sacco legato al carrello. Non era mai soddisfatto mentre guardava nel sacco, c’era poca roba buona da offrire al mercato, quello degli zingari che si teneva davanti alle case popolari. Andava via, tirandosi dietro un piccolo, stanco, che lo aveva accompagnato tutto il giorno. Lei rimaneva con sua madre, che verso le sei e mezza la lasciava sola per andare a piazzarsi davanti alla chiesa, che a quell’ora iniziava la messa e racimolava qualcosa. Restava sola a rincorrere i frequentatori del supermarket, qualcuno si faceva aiutare, altri non volevano, non la sgridavano quasi mai, si limitavano a fare la loro strada senza neppure notarla. Le sembrava di non aver guardato altro che asfalto e ruote di carrello, e di avere la bocca piena di per favore. Così seguì quell’uomo che le disse di andare via. Era stanca, ricominciava ad avere freddo Si era fermata e lui aveva proseguito verso la macchina col suo carrello in verità non molto carico. Moira continuava a guardare il parcheggio, la fila di macchine colorate sulle quali stava scendendo il buio, e l’asfalto grigio sotto i suoi piedi, per cui si spaventò quando l’uomo le si riavvicinò dicendole: tieni il carrello, grazie. Solo in quel momento Moira alzò gli occhi e si accorse che il cielo che stava sopra il parcheggio era ancora azzurro e rosa, là dove il sole non c’era più.