Mi sento sporca. Mi sento l’anima nera e livida e arida e vuota. No, vuota no. Ieri qualcosa, quei due me l’hanno riempita. E mi hanno spezzata.
Quei due sono Valeria e Sergio. Due perfetti sconosciuti, fino a ieri. Amici di amici, di amici di amici. Così amici che su loro due non si erano risparmiati di buttare fango. Che un rapporto vissuto a distanza, part-time, è un rapporto più ombre che luci, che non è un rapporto, che necessariamente ed altrettanto ovviamente lei era troppo sola e lui troppo libero e che… e che e tutta la solita sequela di luoghi comuni relativa a corna e affini, inganni, ipocrisie, meschinità e bassezze di ogni ordine e genere. Ecco. Parlo già in modo diverso. Come se io non fossi stata una di loro. Una di quelle che ha sempre detto e pensato, che dice e che pensa le stesse identiche cose. E ora invece le sta classificando come luoghi comuni. Meschinità e bassezze. Invidia anche, probabilmente, sicuramente. Di chi li ha visti e conosciuti insieme e ha fomentato queste insinuazioni. O forse neanche, semplicemente cecità, incapacità di vedere, di lasciar passare le cose dagli occhi nel cuore, o semplicemente sulla pelle. E cieca devo essere stata anche io, tutta la vita. O oggi sono pazza e visionaria.
Valeria e Sergio sono sposati da una vita. E vivono lontani, per motivi di lavoro. E si amano. Perdutamente, coscientemente, profondamente, inevitabilmente. Inevitabilmente non perché non possono evitarlo. Perché non vogliono, non hanno voluto e non vorrebbero mai evitarlo. E tutto questo lo leggi, io l’ho letto, in faccia ad entrambi. Nei loro occhi che non si guardavano perché erano lì a incontrarmi, a guardare me, con tutto il rispetto e l’attenzione di un incontro, eppure li sentivi che si cercavano. Costantemente. Come se ci fossero davvero invisibili fili a tenerli uniti. I loro occhi e i loro corpi. E le loro anime. Nelle loro mani, che a volte si sfioravano, impercettibilmente, pudicamente. Al contrario di chi si tiene costantemente per mano: stiamo insieme, ci teniamo per mano. E attraverso quella mano non passa niente. O di chi lo fa d’un tratto, quando magari non lo fa mai, e allora è un segnale. E’ il mio uomo, è la mia donna. Un segnale per gli altri. Peggio: a volte non è che un meschino segnale per accorciare una distanza che diventa evidente. Lunga, nel tempo. O una richiesta, magari una forma, magari l’unica forma, di preliminare. Le loro mani capitavano vicine. Quando non potevano più stare lontane. Deve essermi successo qualche altra volta nella vita. Devo averlo visto se lo ho riconosciuto. Magari devo averlo anche sognato. Da ragazzina, da adolescente. So che davanti a loro significava meno di niente quello che magari sicuramente avevano vissuto in tanti anni, se si erano traditi, devastati, odiati, lasciati, ripresi, se avevano pianto e riso, se si erano sentiti soli e persi. L’amore tra di loro lo sentivi come qualcosa che potevi toccare. Che ti veniva addosso come un diluvio. Grande, pesante, prezioso, sacro. Tutto il resto era niente. E sentirlo era pace e benessere. Luce. Deve essermi successo ma non so quando. E non perché sono cieca se ho potuto vederlo. Perché non lo vedi mai. O lo vedi unilaterale. Una, uno che vive in adorazione dell’altro, dell’altra. O vedi che quello che sembra amore non è amore ma possesso, controllo, gestione, volontà. Di tenere in piedi qualcosa. Come per dire a te stesso alla fine ce l’ho fatta.
Era questo il mio amore per Fabio. Possesso. Controllo. Gestione. Volontà. Ce l’ho fatta. Ho vinto. E lui non c’entrava niente. Meno di niente. Io lo avevo tenuto. Lo avevo sposato, era il padre dei miei figli, era mio. Non mi sono mai chiesta – l’ho fatto? O lo ho chiesto a lui perché volevo sentirmelo dire? Perché doveva dirmelo? – se lui lo volesse. Se voleva sposarmi, se voleva restare, se voleva essere mio. O se piuttosto voleva essere suo. Se voleva scegliermi ogni giorno, cercarmi ogni istante, regalarsi a me ogni volta, di nuovo, ad ogni incontro. Se mi voleva come voleva lei.
Fino a ieri se mi capitava, a volte succedeva ancora, di chiedermi cosa pensava, se era felice, se la aveva dimenticata… sto mentendo. Mi capitava. Mi capita. Mento perché ho bisogno, avevo ed ho bisogno di dirmi che io non ho fatto altro che lottare per lui. E che lottare per ciò che ami è giusto. Che lo fanno tutti. E’ un dovere. E forse lo è. Se lotti. E se ciò per cui lotti è una cosa, non una persona. In questo caso è giusto. Specie se non la rubi a nessuno. O se è una persona. Che ti sta chiedendo di lottare per lei, di aiutarla. Ma Fabio non me lo ha mai chiesto. E io non ho lottato per lui. Caso mai ho lottato contro di lui. Tacendo. Fingendo di non sapere niente. Non guardandolo. Portando avanti il “nostro” progetto come se niente fosse accaduto, come se niente stesse accadendo. Era l’unico modo perché ne sentisse il peso e la responsabilità. E io lo sapevo. Sapevo che quel peso lo avrebbe schiacciato. Lo avrebbe fatto restare. A qualunque prezzo. Anche quello che non era disposto a pagare.
Fabio si era innamorato di un’altra, qualche anno prima di sposarci. Innamorato. Innamorato forse è una parola grossa. Forse lo era all’inizio, forse lo era anche dopo. Forse no. Ovviamente non ho risposte per questo. Non ho voluto averne. Fabio vedeva un’altra. Aveva iniziato a vederla in un periodo di crisi. Eravamo insieme da tanti anni. Quei classici periodi – sono questi i luoghi comuni e io lo vedo soltanto adesso – in cui ci si dice adesso o ci lasciamo o ci sposiamo. E magari sono anni che non ci si sfiora con le mani o ci si cerca con gli occhi. Magari non si ha neanche più voglia di fare l’amore. Ma c’è una vita intera alle spalle che pesa come un macigno. E la scommessa che si è fatti con se stessi. L’investimento. Di tempo, di affetti. E non solo i tuoi. Ci sono gli amici comuni, le famiglie, a volte il lavoro, i progetti. Era stato il suo amico del cuore a dirmelo, il suo amico del cuore che mi adorava. “Stai con lui da una vita, nessuna più di te può sapere come riprenderselo, combatti”. Non riesco neanche a ricordarmi se tutto questo mi fece male davvero. All’orgoglio si, di sicuro. Ma non deve essermi crollato il mondo addosso se non lo ricordo. O lo ho rimosso. So solo che invece di ascoltare Alberto andai da Guglielmo, amico di Fabio e amico di lei, che era una sua vecchia fiamma, di Fabio, che uscivano a quattro quando erano poco più che ragazzini. Guglielmo mi disse lascia stare, aspetta. Gli passerà. Proprio perché lo conosci, non è uno che molla. E io scelsi di aspettare. Che lottando potevo solo peggiorare le cose, dargli troppa importanza, ad una sbandata senza significato. Aspettando in silenzio Fabio sarebbe tornato. E tornò. Ma tornò anche da lei. E da lei non riusciva a staccarsi. So che ci provava. Fingere di non sapere, fingere di non vedere non significa non vedere. Quando si allontanava da lei era ancora più lontano da me. E lontano da sé. Ma io non parlavo, anche davanti all’evidenza. Così lui non poteva parlare e doveva restare.
Avevo visto donne, amiche, lottare per i loro mariti, per i loro compagni. Le avevo viste piangere, disperarsi. Urlare, le avevo sentite soprattutto urlare. E sbatterli fuori di casa, minacciarli con i figli, con i soldi. Le avevo sentite inveire contro le loro “rivali”, le “colpevoli”, mai quelle che i loro uomini avevano scelto. Nessun uomo si innamora, nessun uomo sceglie. Davvero una bella consolazione lottare per un uomo così. Davvero una bella vittoria riprenderselo. A volte come un cane bastonato, che torna a casa come in prigione, lasciando fuori alla porta gli ultimi brandelli di un sogno. Capitato per sbaglio. Per non perdere tutto. Pensavo che Fabio invece sarebbe tornato per me. Non era giusto imporglielo, volevo che lo scegliesse. E sto mentendo di nuovo. Perché lottare per lui sarebbe stato sbagliato. Lottare con lui no. Abbracciarlo e dirgli io sono qui, io ti amo, io ti voglio, io ti aspetto, io ti perdono, imparerò a perdonarti, camminiamo insieme, questo voleva dire lottare. Con lui. Ma voleva dire buttare al vento il mio orgoglio e dire lo so. Voleva dire ammettere di aver perso. Voleva dire accettare di dire al mondo io e Fabio abbiamo perso, ma ci rialziamo, ci proviamo. E io, io quella ferita, lo abbraccio, lo aiuto a rialzarsi. La strada che avevo scelto non erano le urla, le minacce, la rabbia, la lotta. Anche questo il mio orgoglio non poteva accettarlo. Io avevo scelto di non fare niente. Che mi ferisse. Che fosse lui ad andarsene. Che fosse lui a perdere la faccia, il rispetto, gli amici, il lavoro, si anche il lavoro visto che lavorava con mio padre, il tempo. Che fosse lui a ferire tutti. Non lo avrebbe mai fatto da solo. Questo sapevo.
E non lo ha fatto. Non lo ha fatto neanche quando ha saputo che lei aspettava suo figlio.
Sono madre. Guardo i miei figli e guardo Fabio con loro. Sono madre e ho visto l’amore. E ho tolto ad un figlio l’amore di un padre. E ho tolto ad un uomo l’amore di un figlio. Ho tolto a quell’uomo la possibilità di intrecciare fili invisibili nella sua vita. Fili invisibili che tra noi non ci sono mai stati, che tra noi sono stati catene. Ho fatto tutto questo. Non lo ho amato. E non ho amato me. Io gli prendo la mano quando la distanza diventa troppo evidente. Distratta, nel tempo dell’abitudine. Io ho fatto tutto questo a me. Non capiterà che una mano mi sfiori, inevitabilmente.
Cinzia Craus
grazie cinzia ! che bel “racconto” che belle “emozioni” che “considerazioni” che hai trasmesso ! mi sono trovato nelle condizioni di Fabio una volta, ma posso ben dire, che non è stata colpa mia ! e forse, neanche Fabio aveva colpa !io il perdono l’ho avuto, ma la mia rabbia è che ho dovuto addossarmi tutte le colpe, la mia rabbia è che lei, forse, non si è mai chiesta il perchè del mio agire e forse non si è resa conto che non ha lottato per riportarmi “sulla retta via”, e la mia rabbia è che anche io ho scelto il silenzio !
ti saluto sfiorandoti la guancia con la mano !
grazie oligio. Parlare, come parlare senza urlare, è difficile. Richiede una coscienza della propria forza e dei propri sentimenti che non è facile da raggiungere. Richiede sincerità con se stessi per prima cosa. E amore. Che sappia andare al di là dei limiti della “cultura”, dei condizionamenti esterni. Eppure a volte cambierebbe tante cose. In qualunque direzione il cambiamento vada.