Autore del libro “… mi son visto di spalle che partivo… – Tra scegliere e restare ho preferito il mare”
Collana “Suoni” 7
Scrivere di Francesco Paolo Oreste non è possibile se non si conosce la terra che lo ha prodotto. Figlio di quel sole, quel mare e quella roccia vulcanica, di cui è intrisa la materia che lo costituisce. Figlio anche di quel dolore profondo, che la gente del sud porta dentro come un grido che stenta a venir fuori dalle labbra.
Quel grido muto, che viene fuori dalle parole scritte, che non hanno bisogno di preziosimi linguistici per esprimere emozioni, sensazioni, delusioni. Rabbia e speranza.
Il suo libro è la violenza della luce, dei colori dei contorni di questa terra. Quella della camorra, dei morti ammazzati, dei rifiuti, ma anche della Napoli della gente onesta, degli eroi d’ogni giorno, del piccolo miracolo quotidiano.
Lui, uomo dello Stato, in lotta contro la discarica. Quello che la stampa ha definito “il poliziotto barricadero:” con il coraggio di urlare: «I miei colleghi sono costretti a difendere le ingiustizie»
Fautore delle proteste in difesa del territorio contro l’apertura di una seconda discarica nel parco del Vesuvio, e difensore in divisa dell’ordine pubblico.
Figlio di quella terra martoriata e mortificata, prima dalla camorra e poi dallo Stato. Quello stesso Stato del quale deve far rispettare le leggi. Quello Stato, che a volte non rispetta i più basilari principi di giustizia.
Francesco Paolo Oreste, poliziotto, barricadiero, poeta.
Parole, ora ricche di sentimenti, ora dolorose come la lama d’un coltello, che dipingono personaggi reali, storie di vite vissute, di vite spezzate, valori ed emozioni, che solo da una penna intinta nel caffè e nel pianto possono venir fuori.
Il confine tra restare e fuggire. Ma è su questo confine che nasce la sorpresa. Francesco Paolo Oreste è un uomo libero. La sua libertà è il sogno dell’uomo. Il sogno nato dal quotidiano, ma oltre il quale si smette di sognare.
Libero di pensare, di lottare, di scrivere.
Figlio della madre “ingenua che anche quando ha torto, ha sempre ragione”, che “crede che le zingarelle povere siano davvero povere e che in ogni bambino ci siano un uomo buono e uno cattivo.” Di quella madre “maestra che se uno dei suoi bambini diventa un uomo cattivo lei pensa di aver sbagliato qualcosa.
Non è diverso Francesco. Non è diverso quando scrive di Ciro. Ciro, ventidue anni e venti rapine. Venti rapine e piange, perché lui è il figlio della maestra e la maestra non lo deve sapere. Francesco, al quale la divisa pesa, perché è lo Stato che conosce Ciro solo quando lo giudica e punisce. Francesco stesso è solo “un atto giudiziario”. “E lui piange. Perché sono il figlio della maestra e forse è per questo che sono lo Stato e non sono Ciro.”
Peppe. Un colpo alla nuca. “Pizza margherita, coca e crocchè, un padre da conoscere e uno conosciuto, una trincea di muscoli e capelli.” Nudo. Crudo. Tagliente ed espressivo il racconto di Peppe che si iscrive a kung-fu. Peppe suo avversario e amico sul tappeto. Peppe che prende pugni e dà calci, prende calci e dà pugni. Peppe che saluta prima e dopo ogni combattimento. Peppe, che sul tappeto è kung-fu, ma per strada è la bestia, è la camorra, è il braccio della famiglia, è il picchiatore. Per strada Peppe è una merda. Peppe, che quando è con Michele è armato, lo scorta, è un’ombra, un muro, un paio di occhiali scuri. Peppe, che un Peppe entrato in pizzeria gli spara alla nuca. Francesco è a Milano, è un poliziotto, arresta i Peppe.
Peppe, un amico o una merda?
Ma come non vedere Napoli nella sua interezza, nel bene e nel male, nel rovescio di una stessa medaglia, della quale è difficile distinguere la faccia. Quando laddove “volevano costruirci Disneyland, invece c’è una discarica, nel parco nazionale del Vesuvio.” Da Paperino e Topolino a zoccole e gabbiani?
Tanta monnezza, poco tempo – scrive Francesco – serviva un buco, il buco è servito, tra pini e ginestre, problema risolto!
“Il prefetto è lo Stato, lo Stato è l’artefice di questo delitto, lo Stato non punisce se stesso ed ha emanato una legge che deroga alle sue leggi, lo Stato è questo prefetto che applica la legge e mi spiega che lo Stato è qui perché la politica ha fallito. Come se Stato e Politica fossero davvero separabili e separati.
Realmente separati sono il mio mondo ed il suo. Nel mio mondo il Vesuvio è un vulcano, è Leopardi, è Pompei, è Ercolano, è un gigante che riposa, è una pineta odorosa, è una cartolina sporca di salsa e ricordi. Nel suo mondo è un buco da riempire, un vespasiano da proteggere con dieci militari e quattro carabinieri, una cloaca che fino a ieri era gestita dalla camorra mentre adesso c’è lui, c’è il prefetto, c’è lo Stato. E la cloaca…
Ma nel suo libro, c’è anche Marco, il figlio del bidello, che suona Mozart e Chopin, senza aver ricevuto nessuna lezione privata. Marco che ha terminato il liceo e ha deciso di iscriversi a ingegneria.
Marco, che mentre i figli degli ingegneri pensano che per superare i test d’ingresso basti semplicemente studiare e conoscere qualcuno che ti “dia una mano”, si fa bastare un padre bidello che gli spiega come raggiungere la facoltà. Marco che si piazza quarto e che diventerà un ingegnere. Un piccolo miracolo del Vesuvio, come Gino e Roberto, eroi di ogni giorno.
Ma la poesia è anche rivolta. La rabbia che ti prende dinanzi la morte di un uomo innocente. “Fossero stati lacrime e sputi, fosse stato ferro e fuoco. Ma non avrò mai nulla da capire, comprendere o giustificare, sono secoli che ci impiccano o ci sparano addosso ma, da piazza Mercato ad oggi, nessuno si è mai ribellato.”
La stessa rabbia, che provi quando è lo Stato a sostituirsi alla camorra. La stessa vergogna, quando il popolo gregge abbassa il capo dinanzi l’ingiustizia. “Dinanzi ai cancelli della discarica la folla si ferma, c’è fango, c’è polizia, c’è uno Stato stupito di vedere il gregge riunito. Ma nel gregge ci sono i suoi cani pastore ed il rifiuto resterà sempre un rifiuto e mai una ribellione, senza dignità, senza identità. E per questo più colpevole.”
Un libro carico di ricordi. Di vite vissute e di vite interrotte. La sensazione di chi vorrebbe fuggire, ma poi non fugge mai, da quel senso di soffocamento che porta alla voglia di riscatto e libertà.
Fanno da cornice scorci di vite che si mescolano con congruenza ad emozioni vissute e trasmesse, senza falsi preziosismi linguistici. Non servono!
Gian J. Morici
E poi dicono che al Sud, a Napoli c’è solo “munnezza”…….!!!!!!!!!
Leggete, riflettete, imparate da noi del Sud, da noi di Napoli e poi adoperatevi per far sì che tanti “barricadero” abbiano la voglia e la forza di debellare il male canceroso che ci sta divorando.
Non conoscevo il libro e neppure l’autore. Grazie! Non vedo l’ora di leggerlo.
Lucia
LEGGETELO!!! Sarà uno sprone!!! LEGGETELO e diverrà un’ammonimento per quanti credono che qui al sud ci sono solo pecoroni…uniamoci e questo non vuol dire fare la guerra…se tutti unissimo le nostre voci allora realmente lo Stato non potrebbe agire da camorrista…ma per tutti intendo anche coloro che non sentono la puzza… Grazie Fra’ caro vecchio amico mio.