La motivazione a scrivere quest’articolo nasce proprio qualche giorno fa, in cui, nella stessa giornata, mi sono imbattuta in una serie di notizie, diverse tra lo loro, ma che avevano lo stesso comun denominatore, ovvero, facebook.
Sarebbe troppo semplicistico e scontato, scrivere sulle dinamiche sentimental-amorose che nascono grazie a questo sociale network, ma la notizia che ho appreso dal TG di Sabato 4 Dicembre mi ha fatto riflettere. La notizia riportava un evento di bullismo venutosi a creare su facebook: un minore (il bullo) sulla sua bacheca aveva creato un gruppo in cui esprimeva il suo odio nei confronti di un compagno di scuola e invitava i suoi amici ad aderirvi e a mettere in campo azioni lesive nei suoi confronti. A questo gruppo hanno aderito 20 persone. La vittima, venendone a conoscenza ha allertato i genitori i quali sono intervenuti chiedendo aiuto alle autorità.
Quello che mi colpisce della notizia non è tanto l’azione del bullo ma quanto le 20 adesioni al gruppo. Allora mi chiedo: Cosa spinge i ragazzi ad aderire a simili proposte? Paura di essere la prossima vittima o desiderio di emulazione? È così difficile per i ragazzi esprimere le proprie emozioni? Ma soprattutto gestirle? E le famiglie di questi ragazzi conoscono i gruppi ai quali appartengono e/o aderiscono? O, in senso più ampio, cosa conoscono dei loro figli?
Inizialmente, lo scopo di Facebook era di far mantenere i contatti tra studenti di università e licei di tutto il mondo, con il passare del tempo si è trasformato in una rete sociale che abbraccia trasversalmente tutti gli utenti di Internet. Oggi, la nuova creatura tecnologica inizia ad essere il luogo dove si esprime il disagio personale e sociale. Alla luce di ciò mi chiedo perché una cosa così simpatica, carina, coinvolgente deve assumere sempre quella connotazione negativa che è propria di internet? Per esempio: nascono i giochi interattivi e si sviluppa la dipendenza da gioco e/o da internet (le nuove dipendenze), nascono le chat e aumentano le separazioni e i divorzi, nonché, gli adescamenti ai minori, vi è la possibilità di fare acquisti on-line, ecco arrivare lo shopping compulsivo. Il baluardo di internet è stato sempre “la comunicabilità” la “velocità di comunicazione” con L’Altro, ma la mia sensazione, alla luce del fatto di cronaca precedentemente narrato, è il luogo dell’espressione della solitudine, della frustrazione, dell’insicurezza, che nello spazio del “ non visto” diventa espressione del senso di onnipotenza, di ricerca dell’altro, di essere “visto”, non importa perché o per che cosa, e soprattutto come, l’importante è comparire. La mia lettura dell’intenzionalità del bullo e dei suoi “seguaci” è relativa al desiderio di sperimentare un senso di appartenenza, in qualche maniera, un “ground”, delle radici, un sostegno che gli consente di correre “il rischio” per esplicare l’azione finale, in questo caso non per incontrare l’altro ma per scontrarlo. La mia attenzione è concentrata all’elemento di novità: in genere il bullo opera da solo, stavolta egli ricerca il sostegno di altri, in massa. In questo caso, la ricerca dell’altro assume una connotazione negativa, distruttiva e coercitiva. Se questo è stato possibile è perche credo veramente che ci troviamo a vivere, citando il sociologo Bauman, in una società “liquida”, ovvero, in una società dove le relazioni su cui si reggono la famiglia, la città, le varie istituzioni, risultano essere precarie, confuse, disorientanti, senza confini chiari e netti. Ogni sistema è autoreferenziale e sempre meno attento alla relazione umana e alla dignità dell’uomo.
E ciò lo troviamo proprio all’interno del sistema scolastico in cui vi sono delle contrapposizioni nette tra la scuola e la famiglia. I genitori che aggrediscono (verbalmente e non) gli insegnanti, quest’ultimi che trattano i genitori come fossero alunni trovando in loro la causa dei fallimenti scolastici dei figli. È proprio all’interno di questa conflittualità che s’inserisce il disagio dell’adolescente. Per l’adolescente che vive una condizione di difficoltà la scuola diventa la “terra di nessuno” dove ognuno combatte per acquisire un potere, e si sa, in guerra tutto è lecito e vince il più forte, che in questo caso è rappresentato da chi non ha legami, non ha sperimentato il senso di appartenenza, il ground, la sicurezza di base e che sta cercando, con tutti i mezzi a sua disposizione, il senso dell’identità.
L’argomento che sto trattando in questo articolo è molto ampio ma vorrei concludere con una mia riflessione: molti colleghi, pedagogisti ed esperti del settore educativo, negli ultimi anni hanno enfatizzato il concetto di “qualità temporale” sottolineando che non importa quanto tempo passi con tuo figlio, alunno, amico, partner,etc, ma l’importante è la qualità. Io vorrei sottolineare, invece, che anche il tempo, in termini, di quantità, ha la sua importanza, perché permette di costruire, capire, ascoltare, assaporare quello che accade nella relazione, e permette di rafforzare la qualità, perché si dà continuità e stabilità affettiva alla relazione stessa.
Alla luce di ciò, credo che occorrerebbe creare un mondo, reale e virtuale, più umano, dove poter creare dei contesti relazionali in cui ognuno non solo impari a riconoscere l’altro ma anche a riscoprirlo e a rispettarlo nella sua essenza come indispensabile risorsa per la sua esistenza.
Riferimenti bibliografici
P. Cavaleri, (2007). “Vivere con l’altro. Per una cultura della relazione”. Città Nuova Editrice, Roma.
Dott. Irene Grado
Psicologa-Psicoterapeuta della Gestalt
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