Ufficialmente la più povera città d’Italia, eppure, basta poco per rendersi conto che di soldi in questa “cittaduzza” – come la definì Pirandello -, ne girano tanti. Anzi, tantissimi.
Ad ogni angolo della strada, c’è uno sportello bancario.
Ovunque, auto nuove di grossa cilindrata, super accessoriate.
Al polso di tanti uomini -i nuovi manager dell’ultima ora -, Rolex e orologi d’oro, da far invidia ai ricchi collezionisti.
Non mancano le belle imbarcazioni e qualche dipinto d’autore ad abbellire le pareti delle case dei nuovi ricchi. Spesso scelti senza gusto, ma rigorosamente firmati dagli artisti più quotati.
Signore in pelliccia che dismessi da poco tempo umili panni, partecipano a riunioni indette per la “Agrigento bene”, o si recano al teatro, superba cornice di una vetrina dalla quale mostrare alle amiche l’ultimo capo griffato o il gioiello regalato dal marito. Più spesso, dal “fidanzato”.
Così si chiama adesso, quello che una volta veniva definito volgarmente “amante”.
Eh sì, Agrigento, i cui costumi lascivi erano conosciuti sin dall’antica Roma, è anche questa.
Poco coraggio nel fare scelte che mettono in discussione la sacralità della famiglia. Molto più facile imbattersi in concetti di “famiglia allargata” composta da un paio di lui, di lei, e, a volte, anche qualcos’altro.
Il professorone che, tra le tante, soddisfa le necessità della moglie di quel tal politico – ma a volte anche quelle di carriera dello stesso – troppo preso dai suoi impegni; il professionista pronto a far finta di non vedere i troppi impegni della sua signora – anche lui gode di qualche piccolo privilegio – e così via.
In passato non sono mancati – e forse non mancano tuttora – neppure esempi da parte di uomini di chiesa che, oltre la “fidanzata”, regolarmente sposata, si sono assunti – ovviamente in gran segreto – le responsabilità derivanti dalla paternità.
E se poi gli stessi, oltre che bestemmiatori incalliti e grandi affaristi, erano – così come si mormora – anche atei, a chi può interessare?
Per il marito, “curnutu pacinziusu”, menomato fisicamente in quelle parti non baciate dal sole, tanto da esser affetto da impotentia generandi se non da impotentia coeundi, difficilmente si potrebbe ipotizzare che abbia creduto nella grazia dello Spirito Santo e in una nuova Vergine Maria.
Ma gli scandali sono quelli che riguardano il popolino.
Non toccano mai quell’uomo cattolicissimo, sempre in compagnia della propria signora, che , continua a mollare qualche euro per progenie avuta con la sua segretaria quando era direttore di un importante ufficio.
Rispetto al passato, un cambiamento ad onor del vero, c’è.
Se la storia ci narra dell’amore di una nobildonna per un capitano di fanteria di stanza ad Agrigento e della successiva follia del coniuge a seguito della scoperta, i giorni nostri ci parlano di taciti accordi, di massoneria, interessi economici e politici, di strani equilibri, ai margini dei quali, non manca l’ombra della mafia.
La cittaduzza pirandelliana è centro di poteri più o meno occulti.
Logge massoniche, commistioni mafiose-politico-imprenditoriali, che hanno generato enormi capitali, detenuti da pochi uomini e da qualche prestanome.
Nessuno si chiede come fa un modesto imprenditore, dall’oggi al domani, a ritrovarsi nel “club” degli uomini più ricchi, se non del Paese, dell’isola?
Evidentemente no.
Così come, nessuno si chiede perché i più importanti latitanti di Cosa Nostra, nonostante questa provincia fosse stata teatro di sanguinosi scontri tra due – apparentemente diverse – organizzazioni mafiose (Cosa Nostra e Stidda), trascorsero qui la loro latitanza.
Giovanni Brusca, viene arrestato ad Agrigento in contrada Cannatello.
L’uomo che aveva ucciso per ordine di Totò Riina il piccolo Di Matteo, trovava riparo ad Agrigento. Nella stessa provincia, nella quale il ragazzino era stato tenuto prigioniero.
Lo stesso Riina, trovò ospitalità in casa di un saccense e non mancano le leggende metropolitane che raccontano di un Riina in giro per Sciacca o di cene ed incontri in un albergo della zona.
Giornalisti del New York Times indagarono a lungo sul ricovero presso una clinica privata agrigentina di un altro capomafia: Bennardo Provenzano.
L’uomo del quale Riina diceva “ha il cervello di una gallina ma spara come un dio”, trovò anche lui ospitalità nella cittaduzza?
“Binnu u tratturi”, così soprannominato per le sue capacità “militari”, ha contribuito ad alimentare altre leggende.
C’è chi giurerebbe di averlo incontrato in città. Chi crede di ricordare che vivesse in una zona abitata dalla borghesia bene di Agrigento e si pensava facesse il ragioniere.
Nasce da questo l’ultimo soprannome (u raggiuneri) di “Binnu u tratturi”?
Agrigento è la “cittaduzza” di Pirandello o, come sembrerebbe a giudicare delle sperimentazioni politiche e non, l’ombelico del mondo? O quantomeno, di un certo mondo?
Le recenti cronache alimentano altri misteri. Agrigentini sconosciuti i cui nomi assurgono d’improvviso agli onori della stampa nazionale.
E mentre la sonnolenta “cittaduzza” si sveglia solo per parlare di corna, di pallone e della pizza del sabato sera, all’ombra delle colonne doriche forse si è fatta la storia. Quella storia, che mai verrà pubblicata sui libri.
Gian J. Morici
Questo giornale mi piace sempre di piu’.Allora avanti a tutta ” birra ” .Complimenti Dott.Morici per il bellissimo articolo che rispecchia fedelmente la verita’.
Giuseppe
BELLISSIMO ARTICOLO, QUANTI NOMI SI NASCONDONO DIETRO, QUANTA VERITà VIENE PURTROPPO OMERTOSAMENTE TRATTENUTA DIETRO I SOLITI PETTEGOLEZZI, QUASI A RIDURRE LA CONSAPEVOLEZZA CIVICA DELL’IMPATTO DELLA CRIMINALITà CHE CI CIRCONDA E SI ALLARGA.
MAFIA USURA MASSONERIA PERSINO, RENDONO UNA CITTà SENZA TALENTO, PARADOSSALMENTE IN AUGE, LUCE RIFLESSA DI LUCI RIFLESSE SENZA ONORE E SENZA GLORIA, IN UN CONTESTO DELUDENTE E DEPRESSO.