Lunghi anni persi dietro le ciance di pseudo pentiti come Vincenzo Scarantino, dietro le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, papelli e trattative Stato-mafia, prima di arrivare alla logica conclusione delle motivazioni riportate nella sentenza del Borsellino quater: l’uccisione del giudice Paolo Borsellino fu determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva.
Esclusa dunque la tesi secondo la quale la cosiddetta “Trattativa” abbia accelerato l’uccisione di Paolo Borsellino. La cosiddetta trattativa Stato Mafia non c’entra nulla con la strage di Via D’Amelio, che si apre a nuovi, o per meglio dire vecchi, scenari: quell’indagine mafia-appalti voluta da Giovanni Falcone, condotta dagli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, e che Paolo Borsellino avrebbe voluto portare avanti proprio con quegli uomini del Ros che il 16 febbraio 1991 avevano messo nero su bianco le collusioni e gli interessi che “cosa nostra” aveva nel mondo imprenditoriale.
Quel santo cristiano di Giammanco
Con queste parole Pino Lipari, l’uomo che per conto dei corleonesi pilotava gli appalti pubblici, indicò l’allora procuratore capo Pietro Giammanco che avrebbe avuto delle difficoltà con l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo.
Il nome di Lipari compare molte volte nel famoso dossier “mafia-appalti”, relativamente a società che risultavano di fatto da lui controllate ma che ricadevano sotto la gestione di Bernardo Provenzano.
Le numerose relazioni di servizio riportate nel dossier dei Ros di Mario Mori e Giuseppe De Donno, riportavano, inoltre, i numerosi contatti e incontri che il Lipari aveva con uomini di “cosa nostra”.
Mafiosi del calibro di Carmelo Colletti (boss ucciso a Ribera), contatti con Gariffo (nipote di Provenzano), con Angelo Siino, con Giuseppe Abbate (ritenuto all’epoca reggente della famiglia mafiosa di Corso dei Mille). “Ma i contatti del Lipari con l’Abbate – scrivono gli uomini del Ros che indagavano sugli appalti di cosa nostra – non sono i soli con l’ambiente della mafia, infatti, l’ascolto delle utenze telefoniche a lui in uso dava modo di stabilire la sicura cointeressenza di questi con il noto indiziato mafioso Antonino Buscemi”.
Il dossier riporta considerazioni che consentivano di evidenziare quale fosse la reale capacità imprenditoriale del Buscemi e del Lipari, che rappresentavano gli interessi delle cosche mafiose che coinvolgevano anche i colossi della imprenditoria edile del nord Italia, in ossequio ad una perseguita strategia mafiosa di infiltrazione che permetteva di massimizzare profitti ed investimenti, eludendo l’attività di controllo degli organi competenti.
Dalle motivazioni della sentenza del Borsellino quater emergono fin da subito i contrasti tra Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo Giammanco, ricordando come la delega a quelle indagini, più volte sollecitata da Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita, riportando, inoltre, l’incontro tra Borsellino e la dottoressa Lilliana Ferraro, quando insieme avevano anche parlato del rapporto “mafia-appalti”, ricevuto dal Procuratore Giammanco dai carabinieri del Ros, e irritualmente inviato al Ministero della Giustizia. Fatto che irritò Giovanni Falcone (nel frattempo come noto in servizio al Ministero) che ne dispose l’immediata restituzione.
Il Palazzo di Giustizia e il pool
Cosa accadeva nel palazzo di giustizia di Palermo non lo sappiamo ancora con certezza, ma pesano, e non poco, i sospetti che Paolo Borsellino, il giorno prima dell’attentato, confidò alla moglie, dicendole “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”.
Borsellino, dopo la morte di Giovanni Falcone, “aveva mostrato particolare attenzione per le inchieste riguardanti il coinvolgimento di ‘cosa nostra’ nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale” – riporta la sentenza, che sottolinea quanto Falcone avesse intuito con la nascita del pool antimafia, ovvero che stante il carattere unitario e fortemente centralizzato dell’organizzazione criminale “cosa nostra”, ogni singolo delitto alla stessa riconducibile, era l’anello di una lunga catena e non un episodio a sé stante.
Un’intuizione brillante che portò alla nascita del pool antimafia che avrebbe dovuto seguire le indagini in modo tale che non si perdessero in mille rivoli difficilmente ricollegabili a quell’unica organizzazione criminale che dettava e gestiva ogni aspetto della vita politica e imprenditoriale dell’isola.
In linea di principio non v’è dubbio che Falcone avesse visto bene. Diversa è però la vita reale.
Antonino Meli
La creazione di un’unica struttura che si dovesse interessare di ogni singolo delitto di mafia (oltre ai rischi dovuti all’accentrare nelle mani di pochi uomini indagini che coinvolgevano sì mafiosi, ma anche soggetti appartenenti al mondo politico e imprenditoriale) creava anche una situazione di conflitti di competenze, che porterà ad accusare ingiustamente il giudice Antonino Meli di aver voluto azzerare il pool antimafia.
Il nome di Meli, purtroppo, viene ricordato soltanto per il fatto che nel gennaio 1988 il Csm lo preferì a Falcone per sostituire Antonino Caponnetto a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale, motivandolo con la maggiore anzianità di Meli.
Un concetto forse criticabile, ma che non valse soltanto nel suo caso, né prima e neppure dopo. Del resto, se criticabile era il criterio dell’anzianità senza demerito, quello dei presunti meriti il cui giudizio di valore sembra rimesso a una trattativa (questa sì, “trattativa”) tra i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura (Palamara docet!) non lo è certamente meno.
La verità è che difficilmente qualsiasi giudizio di merito potrà essere oggettivamente tale.
Antonino Meli non era un personaggio di scarso spessore ed era già stato un magistrato impegnato in prima linea che aveva emesso molteplici sentenze di condanna all’ergastolo per molti vertici di “cosa nostra”.
Gestì processi particolari, come il processo Chinnici quando comminò l’ergastolo a Michele Greco mentre questi era capo della Cupola, tenendosi lontano da giochi di potere, da accordi correntizi e da passerelle mediatiche alle quali non era avvezzo, visto che lavorava nel più totale silenzio.
Una persona, dunque, avulsa dai giochi di palazzo, rispetto la quale, anche Paolo Borsellino, che pure avrebbe preferito la nomina di Falcone al suo posto, non ne mise mai in dubbio la correttezza e l’onestà.
Il vero nocciolo della questione tra Falcone e Meli riguardò la centralità del cosiddetto pool antimafia al quale fare confluire tutte le indagini per tutti i delitti commessi da “cosa nostra”.
Meli riteneva infatti che non potessero esserci magistrati di serie A e di serie B, ritenendo che molti processi arrivando in Cassazione avrebbero potuto subire la nullità per violazione del cosiddetto principio del giudice naturale.
Secondo Meli un fatto di mafia accaduto altrove, non necessariamente doveva essere trattato a Palermo, quando nel luogo dove era avvenuto il fatto c’erano magistrati che potevano gestire in maniera autonoma.
Va detto inoltre che quando avvennero conflitti di competenze, il Csm diede sempre ragione a Meli.
Tra Meli e Falcone c’era certamente un modo diverso di vedere la gestione di quell’ufficio, ma non gli obiettivi che erano comuni a entrambi.
Purtroppo la macchina del fango messa in moto artatamente da chi altri interessi aveva, si attivò per screditare un magistrato che aveva da sempre servito lo Stato, alimentando, o forse cprovocando, una situazione conflittuale con Falcone.
Prova ne sia la raffigurazione che se ne fa nel primo film sulla vita di Giovanni Falcone nella scena in cui l’attore che interpreta Meli riceve la telefonata in piena notte da qualcuno che gli dice: “Tu devi presentare la domanda per consigliere istruttore”.
L’attore che impersona Meli, in dialetto siciliano risponde: “Ma come, ci misi na vita per arrivare… e ora mi dite…”, mostrando Meli come una persona a servizio forse anche della mafia.
Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo morta anche lei nell’attentato di Capaci, nel corso di un’intervista disse di Nino Meli che era un gran galantuomo.
Se pure come dicevamo il principio di Falcone era valido, la vicenda Palamara e la gestione palermocentrista di come vengono condotte alcune indagini, dovrebbe indurre a più attente riflessioni.
A cominciare dall’opportunità di nominare a capo di procure che hanno la responsabilità di indagare su magistrati di altri tribunali, magistrati provenienti da tribunali che da quelle procure potrebbero essere oggetto di indagini.
Mafia-appalti. Ripartiamo da zero, o quasi
Se come emerge dalla sentenza del Borsellino quater non fu la cosiddetta “Trattativa Stato-mafia” ad accelerare la morte di Borsellino, e se tra le concause primarie prende sempre più corpo l’indagine mafia-appalti, condotta da Mori e De Donno, forse è necessario ripartire da zero, o quasi.
A partire da quando Paolo Borsellino rischiava di essere ucciso nel 1988 per fare un favore ai Messina Denaro e Mariano Agate. Così come andrebbe più approfonditamente indagato il progetto di ucciderlo a Marina Longa, presso la sua residenza estiva, dove Baldassare Di Maggio venne incaricato di recarsi su ordine di Totò Riina, servendosi della vicina abitazione di Angelo Siino come punto di osservazione.
Era solo la casa di Siino il punto di osservazione? Quali erano i rapporti tra magistrati, imprenditori, politici e professionisti collegati a “cosa nostra”?
Se Falcone e Borsellino temevano i “veleni” del palazzo e possibili tradimenti, su cosa fondavano questi sospetti?
Ripartiamo da zero, o quasi…
Gian J. Morici
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