Questa sembra essere la domanda che tutti si pongono, dopo la figuraccia che l’Italia ha fatto nel consegnare Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, al dittatore Nursultan Nazarbayev.
La storia, nonostante ci si accanisca nel voler provare la responsabilità del ministro Alfano, è molto semplice. Come ricostruito dal quotidiano “Repubblica”, il 28 maggio, l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov e il suo primo consigliere si recano presso la Questura e al Viminale per sollecitare la cattura di Mukhtar Ablyazov, definito come uno spregiudicato malfattore, legato al terrorismo internazionale. I due diplomatici vengono ricevuti dal prefetto Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del Ministro dell’Interno – al quale il ministro Alfano aveva chiesto di parlare con i due kazaki dopo che, insistentemente, lo avevano chiamato per ottenere con lui un appuntamento urgente – e dal prefetto Alessandro Valeri, capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza.
Dopo la riunione, con una tempistica degna del guinness dei primati, la stessa notte avviene il blitz. Procaccini ha infatti messo rapidamente in moto la macchina che porta Alma e la figlia di sei anni direttamente nelle mani del dittatore, che accusa il di lei marito di essere legato ad un gruppo terroristico.
Fin qui nulla di strano? Serve a qualcosa ricordare che il presidente Nazarbayev e il presidente Alexander Lukashenko della Bielorussia sono gli unici capi di Sato ai quali è stata negata la partecipazione al Consiglio d’Europa a causa di violazioni dei diritti umani? E che senso avrebbe ricordare come la Gran Bretagna nel 2011 ha concesso ad Ablyazov – ex ministro dell’energia sotto Nazarbayev – asilo politico, dopo che Amnesty International ha dichiarato che era stato torturato per aver guidato l’opposizione politica al regime?
Sarebbe stata sufficiente una piccola ricerca su internet, senza scomodare inquirenti e servizi segreti, per scoprire che stavamo consegnando la pecora al lupo.
Ma, evidentemente, la vicenda era talmente poco importante che Alfano, dopo aver chiesto al prefetto Procaccini di incontrare i due diplomatici kazaki, non ci ha più pensato. Neppure per chiedere cosa volessero. Né lo stesso prefetto – secondo quanto dichiarato dai collaboratori di Alfano – avrebbe informato il ministro dell’esito della riunione.
Del resto, la visita di un ambasciatore e del suo primo consigliere – che avevano chiesto un incontro “urgente” con il ministro -, non merita di certo alcuna attenzione. Non si tratta sicuramente di una vicenda seria, come lo scippo subito qualche tempo fa dalla zia del ministro, che occupò ampi spazi sulla stampa e che portò all’arresto dei “pericolosi criminali”. Né tantomeno del furto della “preziosa” bicicletta del ministro, il cui ladro è stato individuato in brevissimo tempo.
Perchè dunque continuare ad accusare Angelino Alfano di avere responsabilità nella vicenda? In questi giorni, sono in molti ad affermare che in qualsiasi altro Paese il ministro avrebbe rassegnato le proprie dimissioni, ma noi siamo in un altro Paese o siamo italiani?
Un conto è che sia la stampa estera, come nel caso dell’Indipendent, a pubblicare che Alfano avrebbe ordinato un “extraordinary rendition” per aiutare il dittatore del Kazakistan per volere di Berlusconi, un altro, che sia la stampa italiana a non voler credere che il ministro fosse all’oscuro di quanto stesse accadendo nel suo dicastero.
Per quale motivo prefetti, funzionari e dirigenti avrebbero dovuto avvisare il ministro?
Un simpatico ragazzone siciliano che pensa di aver già capito tutto del mondo e della vita. Certo, non è un ragazzo ingenuo o ottuso, ma è pur sempre un giovanotto.
E se qualche piccola “incongruenza” c’è, visto che l’Indipendent pubblica che “un tribunale di Roma ha ora stabilito che documenti della donna erano in ordine e che ha messo in discussione la validità e la velocità della deportazione”, vogliamo dare anche di questo la colpa ad Alfano? Li ha forse controllati lui i documenti?
Pazienza se la figlia maggiore di Ablyazov, Madina, parlando dalla Svizzera, ha detto a Radio Free Europe: “Probabilmente, l’attimo in cui lo avranno (riferendosi al padre e al Regime del Kazakistan), sarà solo per ucciderlo. Vogliono ucciderlo, perché mio padre è il più grande avversario del presidente “, anche di questo vogliamo dare la colpa all’inconsapevole ministro?
O vogliamo attribuirgli quella che Berlusconi nel corso del vertice dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) del 2009, disse che tenendo il vertice OSCE, il Kazakistan stava diventando un eroe sulla scena mondiale, acquisendo meritata autorevolezza e prestigio ed elogiando la saggezza politica del suo leader, “ giustamente amato dal suo popolo”, suscitando non poche polemiche, visto che il dittatore del Kazakistan non sembra proprio venga ritenuto né un eroe, né tantomeno un uomo amato dal suo popolo?
Sì, forse è vero che l’Angelino nazionale da ministro di giustizia verrà ricordato per le sue proposte di leggi incostituzionali a beneficio di Berlusconi; forse è vero che vicende come lo scippo subito dalla zia del ministro e il furto della bicicletta dello stesso, hanno suscitato più clamore di quanto non e abbiamo suscitato le sue attività da ministro (escluse quelle ad personam); ma perché addossargli colpe che non ha e per le quali presto sarà chiamato a rispondere qualcun altro, rendendo giustizia al povero ragazzo?
Un giovane messosi al servizio del suo Paese, che non rassegnerà mai le proprie dimissioni, consapevole del fatto che “rassegnati” ci sono già gli italiani.
Gian J. Morici
Repubblica svela altri possibili retroscena:
Petrolio, mattone e banche: i business dell’Italia nel regno di Nursultan
di ANDREA GRECO
MILANO — Italia e Kazakistan. Non proprio “una faccia, una razza”, ma due Stati con grandi relazioni politiche, commerciali e strategiche. Il Belpaese è da vent’anni partner privilegiato del rampante Kazakistan, specie da quando all’italiana Eni fu affidata la regia dello sviluppo del più grande giacimento di idrocarburi scoperto da un trentennio: Kashagan una bolla di materia prima grande quanto la Lombardia sotto il Mar Caspio.
Un cantiere da 150 miliardi di dollari, tra i più complessi al mondo, dove il Cane a sei zampe ha imparato — anche con ammaccature — a rivaleggiare con le grandi major mondiali. Gli scambi commerciali tra i due paesi sfioravano il miliardo nel 2012 e fanno dell’Italia il 2° partner europeo kazako, 6° al mondo.
La tendenza si è quintuplicata in dieci anni: al seguito dei pionieri Eni si sono accodate una cinquantina di medie imprese dell’indotto oil & gas e infrastrutturale, come Salini-Todini, Impregilo, Italcementi, Renco. O Unicredit, che poco prima della crisi andò a cercare fortuna rilevando Atf, quinta banca kazaka ceduta a maggio con perdita di gran parte degli 1,5 miliardi spesi.
Tuttavia è difficile spiegare quel che è capitato il 31 maggio ad Alma Shalabayeva con le cifre, o una ragion di Stato che molto consente. Per esempio la Gran Bretagna che dal 2011 offre asilo politico al dissidente-oligarca Mukhtar Ablyazov, marito di Shalabayeva, non vanta minori interessi in Kazakistan. A Kashagan la anglo-olandese Shell ha la stessa quota di Eni, il 16,8%, e nell’altro giacimento di Karachaganak British Gas detiene il 32,5% come gli italiani. La politica delle diplomazie commerciali del resto vale per molti paesi; e tutte le grandi major allignano ad Astana e dintorni. Non può bastare a spiegare.
Andrebbero esplorate piuttosto motivazioni recondite, personali, di potere, per cercare più senso a questa vicenda. O capire come l’ambasciata kazaka a Roma facesse il bello e brutto tempo, e il suo inquilino potesse telefonare più volte al ministro Angelino Alfano, poco prima del blitz di fine maggio, reclamando di incontrarlo “ora”.
Una pista c’è. “Nursultan tu sei un leader molto amato dal tuo popolo. Ho letto un sondaggio, di un istituto indipendente, che ti assegna il 92% di stima e amore del tuo popolo, un consenso che non può che basarsi sui fatti”. Così Silvio Berlusconi tre anni fa davanti a 54 presidenti e ministri europei, in Kazakistan per l’assemblea Osce. Eppure il presidente Nazarbaev di cui parlava, suo “amico” come Vlad Putin, è uomo vocato agli affari più che ai diritti civili. Negli Usa è considerato un cleptocrate, le cui gesta di corruzione e riciclaggio sono state perseguite dalle corti di mezzo mondo.
Il genero Timur Kulibaev è indagato anche a Milano, nell’inchiesta per corruzione Eni in Kazakistan, per cui il pm Fabio De Pasquale chiede da un anno di commissariare Agip Kco. Per la procura Kulibaev sarebbe stato il destinatario supremo di almeno 20 milioni di dollari in tangenti pagate da intermediari disonesti. La longevità dell’ultimo leader sovietico nell’ex “nazione sorella” si spiega con i suoi buoni uffici e rapporti moscoviti almeno quanto il suo potere di fornitore di petrolio e gas.
Repubblica scrisse, nel 2010, che Putin aveva aperto a Silvio Berlusconi la strada ai giacimenti di gas pre-caspici in Kazakistan. Report nel 2012 trovò testimonianze per cui a Chinarevskoye, sotto il confine russo, c’è un giacimento di 16 km quadrati, con abbastanza olio e gas da fruttare un milione di dollari al giorno, e tra i soci ci sarebbe Berlusconi. Non vi è certezza, perché
la società Zhaikmunai Llp gestrice è controllata da un’omonima accomandita nell’Isola di Man, in un intrico di fiduciarie di identità inespugnabile. Quella holding nacque nel 2007, pochi mesi dopo la riscrittura degli accordi strategici tra Eni e Gazprom, che allora suscitarono timori e critiche dell’Ue e degli Usa. Berlusconi non ha mai commentato l’ipotesi. Chissà se ci pensa in queste ore, nell’ennesima visita privata a Putin.