Associazione per la Tutela e la Valorizzazione dei BB. CC. AA.
Sede di Agrigento
In inglese Ground Zero (“livello zero”) designa un’area in cui è avvenuto un disastro come, per esempio, l’epicentro di un terremoto, il luogo di una violenta esplosione o, come è ormai è entrata nell’immaginario collettivo, la superficie meridionale di Manhattan dove sono crollate le Torri Gemelle.
La zona di ogni disastro si trasforma e si caratterizza per gli accumuli di macerie dovute al crollo delle strutture edilizie.
Akràgas-Agrigento, nella sua storia millenaria, fortunatamente non ha subìto terremoti disastrosi o attacchi terroristici, a parte qualche bomba americana nel ’43. Eppure, pur senza esserci stati questi gravi eventi, i crolli li ha avuti lo stesso, sostanzialmente per incuria, abbandono, forma mentis indolente e omissiva, sia privata che pubblica.
Uno tra i più famosi crolli è quello del Tempio di Zeus Olimpico o Olimpieion, il latino Tempio di Giove. Giuseppe Picone racconta nelle sue Memorie storiche agrigentine: “Il secolo XV cominciava in Girgenti colla rovina ( la notte del 9 dicembre 1401) delle tre cariatidi, che sostenevano parte del famoso Tempio di Giove Olimpico Picone” e cita una traduzione dell’opera di Fazello, il quale così si rivolse al “glorioso e chiaro Agrigento”:
Quelle rovine venerande e belle
che…delle tue virtudi erano illustri
testimoni, son’ora, ohimè, per terra,
ché sotto il pondo delle gravi e immani
mura, piegando i tre giganti il collo,
e le ginocchia e le robuste spalle,
ch’eran di quella mole alto sostegno,
misere andar nella rovina estrema.
Ove son or le meraviglie tue
o regno di Sicilia? Ove son quelle
chiare memorie, onde potevi altrui
mostrar per segni le grandezze antiche?
Questo crollo per sua fortuna, però, si è storicizzato ed il cumulo di macerie del Tempio è divenuto una secolare “rovina”, molto apprezzata dal gusto estetico che, soprattutto, partendo dalla visione neoclassica, ha attraversato la poetica romantica ed è giunto fino a noi con il richiestissimo turismo archeologico. Proprio il neoclassicismo è stato lo spartiacque che ha rivoluzionato il precedente gusto per gli stili barocco e rococò, fondando la visione dominante – tutt’ora vigente – del primato delle rovine della grecità dorica o ionica (ma anche della romanità), evocatrici dei valori di razionalità, geometria, linearità, regolarità, equilibrio, armonia, perfezione. Il romanticismo, al contrario, privilegiando l’irrazionalità e i sentimenti, ha caricato di fascino la dimensione storico-estetica della rovina, come testimonianza di una passata grandezza perduta, ma i cui resti sono giunti fortunosamente fino a noi. Per questi motivi la rovina va tutelata, valorizzata e i siti archeologici devono essere visitati attraverso i viaggi, per essere visti e contemplati. L’opera frammentaria, in particolar modo, stimola l’immaginazione e fa avvertire il senso del tempo e la caducità di tutto ciò che è umano.
Il primato del gusto per la grecità, tutt’ora dominante, ha segnato la buona sorte delle rovine classiche, come il Tempio di Zeus Olimpico.
Altri importanti crolli Agrigento li ha subìti con la frana del ’66, le cui foto d’epoca, cariche di forti emozioni, sono di per sé parlanti.
Senza dubbio si può affermare che negli ultimi cinquant’anni è stato “speso” un grande impegno per trasformare il centro storico di Agrigento, “la più bella fra le città dei mortali”, in uno fra i più brutti centri storici dei contemporanei. Ormai la famosa frase di Pindaro non è più valida e va cambiata, probabilmente parafrasando una famosa esortazione del divino marchese De Sade: “Cittadini, ancora uno sforzo se volete distruggere il centro storico!”.
L’alba di pasquetta del 25 Aprile 2011, dopo una notte buia e tempestosa (per il forte vento)
Cattiva sorte ha avuto e continua ad avere il crollo di un palazzo storico settecentesco, nel pieno centro storico della “Città dei Templi”, per non essere stato messo bene in sicurezza (al punto da essere abbattuto dal vento). Evidentemente il palazzo del marchese Gaspare Borsellino, detto anche Lo Jacono-Maraventano, non era né un Tempio greco di stile dorico né una casa ellenistico-romana, anche se era – e dovrebbe continuare ad essere – un bene culturale a pari titolo.
Il palazzo del marchese Gaspare Borsellino è (al presente storico) un esempio di dimora della nobiltà borbonica del ‘700. Indubbiamente il marchese è uno fra i tanti “gattopardi” di Sicilia, prima della decadenza dell’aristocrazia post rivoluzione francese e, dunque, prima che nascesse il gusto per il neoclassico.
Il palazzo, infatti, fu costruito nell’innovativo stile rococò, inserendosi efficacemente nel contesto dei vicini edifici rococò ecclesiastici, ampliati o di nuova costruzione, voluti dal Vescovo Lucchesi Palli: il Palazzo Vescovile rinnovato nel 1755, la Biblioteca Lucchesiana publico donata nel 1768, la Casa dei Padri Liguorini. Nello stesso contesto di via Duomo insiste anche un’altra dimora nobiliare in eloquente stile rococò: il palazzo dei principi Del Carretto, detto Lo Vetere-Del Carretto. E’ interessante rilevare che il rococò del Palazzo Vescovile, per ovvia continuità d’uso, non ha subìto deterioramenti, mentre la preziosa Biblioteca Lucchesiana e il complesso dei Padri Liguorini hanno sofferto per anni un grave stato di degrado e, tuttavia, solo i recenti restauri hanno restituito il loro antico splendore. Lo stesso non può dirsi per i palazzi dei principi Del Carretto (detto Lo Vetere-Del Carretto) e del marchese Borsellino (detto Lo Jacono-Maravantano). Il primo versa in uno stato di vergognosa fatiscenza, il secondo è già crollato.
Eppure, essi sono dei monumenti con altrettanto valore storico artistico! Le due dimore nobiliari sono esempi importanti nel panorama dei beni culturali agrigentini, avendo assimilato lo stile rocaille francese, filtrato dall’esperienza architettonica e decorativa di Palermo. Addirittura i Borsellino fecero costruire altri due palazzi settecenteschi: uno si trova in via Atenea, ma è stato radicalmente rifatto nel XIX secolo in uno stile che preannuncia il Liberty; l’altro fu edificato nel 1774 e si trova a Cattolica Eraclea, è fortunatamente integro e sembra essere il “gemello” di quello crollato, forse perché fu progettato dallo stesso architetto. Per godere, pertanto, della leggerezza estetica rocaille, ormai preclusaci dal crollo del palazzo agrigentino, occorre che ci rechiamo a Cattolica Eraclea.
Rocaille questo stile sconosciuto, da cui deriva il curioso neologismo Rococò! Spesso è confuso con il Barocco (per assonanza?), al punto che in molte edizioni turistiche i palazzi agrigentini di questo periodo sono datati al ‘600! Comunemente c’è una rimozione psicologica, uno spostamento in una zona oscura che cancella, ignora la comprensione e l’apprezzamento di queste opere d’arte.
Basta leggere qualsiasi libro di storia dell’arte, enciclopedia o navigare su internet per fare chiarezza. Il Rocaille è uno stile con specifiche caratteristiche che lo differenziano dal Barocco del secolo precedente. E’ l’espressione artistica dell’aristocrazia francese dell’età di Luigi XV (dagli inizi fin oltre la metà del ‘700), che si estenderà dapprima nelle varie corti europee (ma anche extraeuropee, come il sultanato ottomano) e poi influenzerà anche l’architettura ecclesiastica. In Italia si affermerà, in modo significativo, nel Regno sabaudo, nella Repubblica di Venezia e nel Regno borbonico delle due Sicilie, in cui Palermo rappresenta un polo di diffusione.
Il Rocaille rinuncia al classicismo e alla magnificenza del barocco, compiendo una rivoluzione estetica in cui l’immanenza prevale sulla trascendenza. Ricerca la sensualità terrena, la bellezza della natura spontanea (bello pittoresco), il piacevole idillio pastorale, l’amabilità del gioco, l’incanto del fantastico. Libera l’architettura dal peso della decorazione barocca, alleggerendola e movimentandola. Il contrasto chiaroscurale, tipico del Barocco, si dissolve nella luce piena che rischiara l’oscurità. Si preferiscono i colori chiari, sfumati, e le tenui tinte pastello. I nuovi elementi ornamentali diventano asimmetrici e bizzarri, ma complementari all’insieme. E’ una ricerca di armonia che, in modo innovativo, fa interagire in egual misura tutte le arti, maggiori e minori, creando ambienti organici e omogenei: architettura, pittura, arredamento, giardini, porcellane, ma anche scenografia, commedia, musica, danza, ecc.
Leggerezza, armonia e luminosità si ritrovavano nel palazzo del marchese Borsellino di Agrigento. Erano godibili, infatti, le variazioni della linea curva sia nell’aerea e a lunga balconata ad angolo, retta da mensoloni sagomati, sia nella raffinata ringhiera a petto d’oca. Armoniosa era la sequenza dei balconi con i timpani sinuosi, dalle linee curve e spezzate. Luminosa era la decorazione dei balconi, con larghe e composite cornici a festoni, mentre la parte più originale era l’ornamento dei frontoni, che non aveva equivalenti in altri monumenti agrigentini. Si trattava di un ricco ed elaborato intreccio di elementi naturali (foglie, girali, fiori, conchiglie e fregi “auricolari”) che configuravano forme morbide, asimmetriche e mosse, evocando la sensazione di un fluido e spontaneo ambiente acquatico. Era un luminoso esempio di disordine spontaneo della natura ovvero della rappresentazione della “natura pittoresca”, tipica dello stile rocaille.
Tutto ciò – per rimozione delle varie radici storico-culturali, omissioni, errori, “immobilità voluttuosa” direbbe Giuseppe Tomasi di Lampedusa – è rovinosamente crollato, finito nella polvere. Probabilmente il dominante influsso del gusto neoclassico post rivoluzione francese ha plasmato e continua a condizionare le menti, declassando e svalutando i leggiadri monumenti dell’aristocrazia borbonica, e non solo. Questo pensiero sotterraneo fa sì che vengano apprezzati prevalentemente i Templi dorici e la grecità. Tutti gli altri beni sono guardati con incomprensione, superficialità o indifferenza. Addirittura certi abitanti del centro storico, arrabbiati per i disagi dovuti al crollo, dicono che bisogna “alleggerire” il centro storico da questo vecchiume, colpevolizzando “questo merda di palazzo!”.
Una rabbia e un vuoto di senso per il passato analoghi a quelli che hanno provocato il raptus distruttivo di Concetta, una delle tre vecchie signorine Salina, contro uno dei simboli più vitali del Gattopardo, il cane Bendicò. Il romanzo si conclude amaramente col brano Fine di tutto: “Continuò a non sentir niente: il vuoto interiore era completo…Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. “Annetta” disse “questo cane è diventato veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo.” Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.”
4 Responses to IL “GROUND ZERO” DI AGRIGENTO – a cura di SiciliAntica