Adagiata a mezzogiorno, sul crinale giallo tufaceo di una collina a circa 600 metri sul livello del mare, Naro indubbiamente è una città che incanta. Posta al confine tra la Val di Mazara e la Val di Noto, a pochi chilometri da Punta Bianca, sul mare Africano, dalla sua sommità lo sguardo si sperde su gran parte della Sicilia, fino all’Etna. Quali storie si racchiudono in questa geografia? E quale Storia? – Provenendo dalla statale SS576, il paesaggio, da collinare costiero, si trasforma inaspettato, richiamando certe zone della Toscana: molti nobili condottieri al seguito del Gran Conte Ruggiero il Normanno provenienti proprio da quelle zone, ebbero in premio molti feudi del territorio di Naro per la somiglianza con la loro terra di origine: Palmeri, per esempio, o Lucchesi Palli. Aveva proprio ragione il poeta: “… avi terri assà di siminari e ancora avi cchiù terri siminati”[1], traendo il suo verso da Al Idris, l’Edrisi geografo arabo alla corte di Federico II, che non a caso denominò Naro Urbs Fulgentissima[2]. E sui pianori coltivati si ergono le serre, formazioni rocciose grigiastre, reminiscenze di una lingua spagnola ben presente nell’idioma locale – che risaltano imponenti sulle colline circostanti, inverdite da macchia mediterranea o da recenti forestazioni, e da cui “spuntano”, ben visibili, una decina di altissimi impianti eolici, enormi mulini a vento metallici che si stagliano al cielo alterando definitivamente la linea dell’orizzonte, e a cui lo sguardo ancora non riesce ad abituarsi: “Sono testimoni della moderna tecnologia: forse tolgono qualcosa al fascino selvaggio di questi luoghi, che evocano storie fantastiche e leggende – però intrappolano l’energia del vento per trasformarla in energia elettrica”. Ci si aspetterebbe da un momento all’altro di vedere in giro qualche novello Don Chisciotte ambientalista. Che però tarda ad arrivare. Un andamento collinare porta a salire con dolcezza, senza scossoni, senza bruschi inerpicamenti, fino alla Serra di Furore, sicuro insediamento preistorico, probabilmente una necropoli sicana – che la strada attraversa a valle separandola dalla diga dell’ESA, con la sua tipica conformazione a cunicoli e grotte, con i suoi misteri, soprattutto La leggenda dei sette anni: quando si sente l’urlo del nobile naritano decaduto Blasco Migliaccio, rinchiuso in una di quelle grotte piene di ogni ricchezza, di cui si mostrò avido, abilmente raggirato dal sulfureo Mefistofele! – Un’altra serra, sul versante di Canicattì, ha la forma di un castello roccioso che ha sempre stimolato la mia fantasia: il Pizzo Giummello, Pizzu Giummieddu, richiamava, a noi bambini che ancora ascoltavamo le fascinose fabulazioni degli anziani, le gesta dei Paladini di Francia e la morte dell’eroico Orlando, che a Roncisvalle, già in fin di vita, suona il corno fino a farsi scoppiare i polmoni per avvertire i suoi dell’agguato dei Mori. E sotto vi si apre una bellissima e ampia grotta, che si sviluppa su vari livelli per almeno due chilometri, con variopinti riflessi e rare stalattiti e stalagmiti rosa, dove si rinvengono spesso le tracce d’u puorcuspinu, l’istrice dai lunghi aculei che gli dà il nome, la Grotta dell’Istrice, appunto, facilmente visitabile sotto opportuna guida – sempre che il proprietario del terreno sotto cui si sviluppa la grotta sia d’accordo. Naro, pur insegnando la bellezza, non ha ancora imparato a condividerla, figuriamoci a sfruttarla economicamente. Comunque. – E poi u Castiddazzu, dalla parte di Camastra, la serra più mitica di tutte, che ha alimentato nel corso dei secoli leggende a cui la fantasia popolare ha dato ampio risalto, e il cui ascolto letteralmente rapiva i nostri animi di bambini ingenui, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, ancora dentro una meraviglia che la standardizzazione globale avrebbe poi quasi del tutto estinto. Noi non eravamo nativi digitali, e dai nostri maestri di scuola elementare apprendevamo che la cosiddetta cultura Castellucciana rappresentò il passaggio della preistoria sicana dalla nebulosità leggendaria alla chiarificazione storica. Tra Naro e u Castiddazzu un terzo colle, e lì nei pressi un fiume navigabile (il fiume Naro, naturalmente)[3], la descrizione esatta che gli storici antichi avevano dato di Camicos! Quanti fuochi perennemente accessi e visibili dall’alto delle tre torri (lo stemma di Naro) hanno avvertito l’entroterra delle scorribande piratesche dalla vicina costa! Le prime, di cui si ha notizia quasi storica, riguardano le navi cretesi guidate dal re Minosse in persona, che avanzavano sul fiume, minacciose, per raggiungere la meravigliosa Camico, corte del re sicano Cocalo, per reclamare da lui la restituzione del prigioniero Dedalo – che nel frattempo qui aveva trovato riparo, sposando la figlia del re e ripagandolo per la sua protezione costruendo ingegnosamente le fortificazioni della città – sfuggito dal labirinto in cui Minosse aveva segregato il Minotauro, figlio di sua moglie Parsifae e del Toro di Creta, e dove aveva rinchiuso il suo stesso architetto Dedalo, per seppellirne il segreto. Ma Dedalo era riuscito a scappare, volando via con ali di cera insieme a suo figlio Icaro, sfracellatosi al suolo per la sua presunzione di raggiungere il sole. – E là in alto, a Matrici Vecchia e u Castieddu. Ma bisogna ancora arrivarci. Intanto si intravede il lago della diga San Giovanni, che trattiene le acque del fiume Naro, ormai ambiente naturalistico rilevante per il suo particolare micro-clima e dove può capitare di avvistare il raro Airone Rosso. Prima di inerpicarsi per l’erta salita che porta su in città, la pietra, da dura e grigiastra, si trasforma in tufo, carico, arancio, facilmente perforabile, ma resistente – a parte le notizie di frane (gennaio 2005) che però, a rigor di verità, vanno inserite in un fenomeno presente nella zona da tempo immemorabile – in particolare la via Vanelle, che costeggia l’altura su cui si erge il castello – e che periodicamente si fa sentire semplicemente perché gli uomini, sempre loro! – insistono a voler occupare una faglia che la natura non vuole che si abiti! – Proprio alle pendici della collina, su cui le case sembrano abbarbicarsi, si aprono grotte molto antiche, usate dai primi cristiani come catacombe, la più conosciuta delle quali è la Grotta delle Meraviglie, sull’ubertosissima Valle del Paradiso, per la sua rigogliosità e così chiamata da Federico II d’Aragona, il quale nel 1324 promulgò proprio a Naro i Capitolati del Regno, le allora Leggi del Buon Governo, sostando nel castello che nel 1366, sarebbe diventato Chiaramontano. È ancora da questa Valle che il 27 febbraio 1938 si svolse ufficialmente la Prima Sagra del Mandorlo fiorito, che il federale di Agrigento del Partito Nazionale Fascista di allora, il narese Conte Alfonso Gaetani, spostò nella Valle dei Templi per dare alla festa un respiro più ampio – intanto ai naresi fu tolto qualcosa che a tutt’oggi non è stato ancora loro restituito. All’ingresso della città, il primo incontro è con il monumentale Calvario, a monito e a guardia degli uomini: “Pentitevi!”, radunati d’estate nell’immensa piazza sottostante su cui si erge il Santuario di San Calogero, co-patrono della città, insieme alla Madonna del Carmelo, il cui culto ancora continua ogni 18 giugno, con gli ex voto a forma di pane, i pellegrinaggi a piedi e la stràula, l’enorme slitta di legno con su la statua del santo nero trainata da migliaia di fedeli attraverso lunghe corde, nell’attesa di una grazia. Passeggiando per la parte antica della città non si può fare a meno di godere del suo prezioso e antico Barocco (San Francesco e Santissimo Salvatore ne sono esempi eclatanti), costruito con pietre di tufo. Ma uno dei luoghi per me più belli e suggestivi di Naro è u stazzuni, proprio dietro la chiesa di Sant’Agostino, alla fine di via Dante, la vecchia via Magistrale dove si aprivano case nobiliari e conventi – in cui si plasmava la creta per farne utensili, piatti, giare, quartare, bummula, mattoni, canala (tegole): si apre su un meraviglioso scenario naturale che comprende gran parte della diga San Giovanni, il monte Cammarata in lontananza, e il feudo della Mariandola. Un luogo intimamente magico abbandonato a se stesso, ricettacolo di topi, sporcizia, e al più usato come latrina all’aperto da avventori prostatici ormai abituali. Mi ricordo le mie scorribande che dalla Porta Vecchia, o Porta d’oro, sopra San Milàsi[4], mi portavano su, fino alla Madrice Vecchia e al Castello: da qui entrava il frumento, l’oro che per secoli ha arricchito Naro, o le ricchezze degli ebrei – l’oro vero, questa volta! – che proprio lì avevano costruito il loro Ghetto, da cui furono schiacciati, come del resto da ogni altra parte della Sicilia, a partire dal 1492, data veramente fatidica, per la storia moderna! Il Re Martino permise agli Ebrei naresi, occupanti il ghetto della Porta Vecchia di commerciare liberamente e altrettanto liberamente di professare la loro fede. Sappiamo tutti però che gli Ebrei vennero letteralmente schiacciati via dalla Sicilia da Ferdinando il Cattolico con un suo “Regale” bando emanato appunto nel 1492, insieme ai cosiddetti Moriscos (col nome di Moriscos si indicano i musulmani di Spagna che abbracciarono forzatamente la religione cristiana fra il 1492, anno della fine della Reconquista, e il 1526. Il nome fu peraltro usato, con connotazione dispregiativa, anche per i loro discendenti, fino alla definitiva espulsione dei musulmani, decretata nel quinquennio 1609-1614. Wikipedia)[5]. Ebbene i naresi letteralmente insorsero a che tale decreto si attuasse a Naro, proteggendo la sua popolazione ebraica che, grazie ai suoi componenti più facoltosi, aveva salvato Naro da una carestia. Ciò vuol dire che Naro ha una sua naturale propensione a combattere ogni tipo di fondamentalismo travestito di religione, secondo l’eredità trasmessale da Federico II. – Ed eccomi a Matrici Vecchia, il Vecchio Duomo, già in passato dedicato a Maria S.S. Assunta dagli Angeli, e costruito su di una preesistente moschea, occupa insieme al Castello Chiaramontano il punto più alto della collina di Naro. In quanto Cattedrale, il clero locale doveva svolgervi quotidianamente delle funzioni liturgiche, sottoponendosi per almeno tre volte al giorno a una arrampicata che, per quanto spesso supportata da muli e asini, risultava in ogni caso faticosissima. Per tale motivo, approfittando di una lesione nella struttura muraria che fu sicuramente ingigantita, i sacerdoti ottennero intorno agli anni 30/40 del diciannovesimo secolo, di nominare Cattedrale l’attuale Chiesa Madre – a Matrici – in via Dante, situata molto più in basso ed ovviamente molto più agevole da raggiungere. Il Vecchio Duomo venne così abbandonato – gli arredi, le statue, i dipinti e quant’altro furono distribuiti nelle altre chiese – finché l’incuria non lo ridusse a un rudere. Recuperato negli ultimi anni, sembrava essere diventato un’importante centro di aggregazione culturale, con spettacoli soprattutto estivi e manifestazioni di un certo impegno. Purtroppo gli ultimi eventi franosi del 2005 hanno ancora una volta relegato il Vecchio Duomo a monumento da ammirare soltanto da fuori, con la sua facciata arabo-normanna a sesto acuto, intabarrata in una solida struttura di tubi innocenti che ne impedisce al momento la fruizione. – Ma lì vicino, finalmente, il monumento più importante di Naro, recentemente ristrutturato e per fortuna risparmiato dal sommovimento franoso, il Castello Chiaramontano: da qui davvero lo sguardo si perde nella storia, ma con dolcezza, delineando l’immenso orizzonte placidamente, mentre si avvertono gli echi di antichi racconti, il più suggestivo dei quali ha come protagonista Giselda, morta di crepacuore nella torre più antica del castello, rinchiusavi dal marito Calvello, intorno all’XI-XII secolo, perché invaghitasi del paggio Beltrano, fatto scaraventare giù dall’alto della stessa torre: triste storia, ripresa anche da Cecco da Naro nei suoi dipinti sul soffitto dello Steri di Palermo, che la commossa fantasia popolare ha trasformato in leggenda: “Nelle notti di luna piena, il fantasma di Giselda si aggira per i bastioni fatali, invocando l’amato Beltrano …”
In un paese così ricco di tradizioni, la povertà economica e la mancanza di lavoro sono davvero un controsenso, una contraddizione in termini. Naro appartiene a una Sicilia ancora vergine e tutta da scoprire. Ma sembra, come tante altre cittadine, una nobilissima aristocratica decaduta, la cui storia e la cui cultura sono state dimenticate dai suoi abitanti. E se qualcuno se ne ricorda, una potente macchina burocratica lo spinge subito a pentirsene e a ritornare nell’oblio: per questo motivo i naresi continuano ad andarsene via, ad emigrare, in Nord Italia, ma più spesso in Germania, a Pforzheim, ma anche a Londra e negli Stati Uniti, lasciando Naro sempre più disabitata. È proprio vero che “Cu nesci arrinesci?”[6] Molti naresi ne sono fortemente convinti, forse mascherando un certo atteggiamento di rinuncia e passiva rassegnazione. Ma la voglia di lottare a molti per fortuna non manca, anche contro le varie pastoie burocratiche e carenze di programmazione amministrativa: loro si rimboccano semplicemente le maniche, lavorano e hanno finalmente imparato a valorizzare innanzitutto la propria origine. “Cu sì? A ccu appartieni?”, mi dicevano i vecchi quand’ero piccolo per identificarmi. Sapere rispondere a queste domande credo sia tuttora fondamentale per chiunque. E quando vado in giro, fuori dalla Sicilia, e mi chiedono: “Chi sei, da dove vieni?”, prima di dire il mio nome, rispondo sempre: “Io siciliano, sono! Anzi: di Naro!” E se mi chiedono: “Dov’è Naro?”, io rispondo, un po’ piccato: “Informati!”
[1] Ha molte terre da seminare ma ancor di più ha terre seminate
[2] Lo Stupor Mundi inserì Naro tra le prime 23 città demaniali (poi divenute 42) nella riunione del Parlamento di Messina dell’anno 1233. In quanto città demaniale, Naro si ritrovò fino al 1793 capitale di Comarca, un ampio comprensorio su cui ricadevano gli attuali comuni di Canicattì, Campobello di Licata, Castrofilippo, Sommatino, Camastra, Racalmuto, Grotte e Delia (e per un certo periodo anche Favara), dentro un territorio che ha prodotto nel Novecento una letteratura mondiale: Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Russo, Sciascia, Russello … e attualmente ancora Camilleri, Collura, Agnello-Hornby …
[3] Altri dicono l’Akràgas, o più probabilmente il Platani, dato che molte cittadine – per conformazione e posizione, e non senza una certa vena campanilistica, compresa la mia – tuttora reclamano l’antico prestigio dell’antica Camico: Sutera, Caltabellotta, Sciacca, Sant’Angelo Muxaro, la stessa Agrigento! … Queste stesse acque navigabili probabilmente avevano solcato le navi dei rodioti di Gela, otto anni dopo la sua fondazione, per fondare in questa zona Akràgas Jonicum – ma anche Naàron, fiume, appunto, o acqua – cento anni prima che gli stessi gelioti fondassero Akràgas Doricum, ovvero Girgenti. E i Fenici, soprattutto i Cartaginesi, la chiamarono Nahar: fuoco, lo stesso del suo stemma, mentre i Romani la chiamarono Corconia, o Corconiana, importante stazione di collegamento tra Agrigentum e Katane, nei pressi del castello di Mothyum, occupato da Ducezio nel V secolo, presso un sito oggi ricadente nel territorio della contigua Canicattì. E poi l’araba Nar, fuoco e acqua insieme, dell’emiro Ibn Hamud, e ancora la normanna e cristianissima Naro, i cui abitanti medievali, i Naritani, accendevano i soliti fuochi all’arrivo dei pirati barbareschi. E il mito dei Giganti, la grande aristocrazia terriera, Dante e Torquato Tasso, Universitas Studiorum, le Chiese, i Conventi …
[4] Da San Milàsi (San Biagio) si dipartono tre importanti strade: la prima scende sulla sinistra, via Vittorio Emanuele, più comunemente conosciuta come a Strata o Cursu, la Strada del Corso, che taglia le antiche mura medievali della città, uno stretto budello ricco di palazzi sei-settecenteschi, barocchi, il salotto buono, con negozi e caffè, e la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, gotico-normanna, una delle più belle e suggestive chiese medievali di tutta la provincia di Agrigento, con una Pietà e una Madonna delle Grazie di scuola gaginesca, nonché resti di affreschi attribuiti a Cecco da Naro; fino ad arrivare in piazza Garibaldi, su cui troneggia l’imponente facciata barocca della chiesa di San Francesco d’Assisi, dentro cui, tra l’altro, sono da ammirare gli affreschi di Domenico Provenzani, illustre pittore del settecento palmese, con annesso convento, ora Municipio. Lì accanto il palazzo Malfitano, ora sede di un importante e ricco Museo della Grafica, con opere donate ed eseguite da Bruno Caruso, ma anche un Goya e un Rembrandt. – La seconda via va dritto, attraverso la Porta Licata della cinta muraria medievale, per l’antica via Maestra e dei Monasteri, ora via Dante, a basole di Catania levigate e cupoleggianti, dove le famiglie nobili di Naro (Palazzo Destro-Brancato-Torricelli, Palazzo Sciplini, Palazzo Gaetani, Palazzo Palmeri …) a partire dal 1600, invogliati dalla presenza di numerosi ordini conventuali, edificarono i loro palazzi tuttora visibili nel loro antico fulgore, giallo di tufo: subito si incontra la chiesa di San Giovanni Battista, e il convento dei Domenicani; la chiesa del Santissimo Salvatore, benedettina, dotata di una facciata barocca molto arcaica, ospitante le statue di San Benedetto e Santa Scolastica; il Quarto Nobile, ciò che rimane dell’antico monastero delle Benedettine, accanto a Scalunata, alla Scalinata per antonomasia di Naro che collega via Dante con il Vecchio Duomo, a Matrici Vecchia, nella cui cavea ogni estate si svolgono spettacoli di varia natura; e ancora la collegiata dei Gesuiti, che nel 1600 fondarono qui l’Universitas Studiorum, con annessa la chiesa Madre, con opere del Gagini e della sua scuola e del Provenzani; la chiesa di San Nicolò, costruita sull’antichissima Pieve di San Nicolò, all’incirca nel V secolo dopo Cristo, oscurata purtroppo dalla presenza di un altissimo palazzo moderno che ne deturpa la visuale; e continuando, la strada sfocia in una vasta piazza dove si erge la chiesa di Sant’Agostino e l’annesso convento degli Agostiniani, in parte demolito (ora per fortuna in via di recupero attraverso la realizzazione di un importante Centro Socio-culturale), chiesa grandiosa e richiamante nelle forme, ovviamente con le dovute proporzioni, San Giovanni in Laterano in Roma. E la terza strada su, per la Porta Vecchia.
[5]C’erano anche i marrani (in spagnolo marranos, porco; probabilmente dall’arabo maḥram, che significa “cosa proibita”) erano ebrei sefarditi (ebrei della Penisola iberica) che durante il Medioevo vennero costretti ad abbracciare la religione cristiana, sia con la coercizione come conseguenza della persecuzione degli ebrei da parte dell’inquisizione spagnola, sia per “libera” scelta, per una questione formale. Molti marrani mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando in privato fedeli all’ebraismo. (Wikipedia)
[6] Chi esce – cioè chi emigra – riesce – cioè ha successo!